Padre Attilio nell’omelia: Il mio cuore è fermo a 40 anni fa. Ad Acca Larenzia
Prima del corteo in memoria dei martiri di Acca Larenzia e prima del presente, i camerati di Franco, Francesco e Stefano, gli attivisti di Acca Larenzia di allora, hanno organizzato una messa in memoria dei Caduti nella chiesa di San Gaspare del Bufalo al quartiere Tuscolano. A celebrare il rito è venuto dalla Calabria, dove è parroco da molti anni, padre Attilio Russo. Attilio Russo, nel 1977, prima di prendere i voti, era un attivista dei Volontari Nazionali del Msi, e fu anche segretario proprio della sezione di Acca Larenzia. Era presente anche la sera della strage e vide con i suoi occhi cadere Stefano Recchioni colpito da una mano assassina davanti a lui e a Bruno Di Luia, che poi lo portò poi all’ospedale San Giovanni. Padre Attilio nella sua omelia non ha avuto parole di odio o di vendetta, ma ha raccontato le sue emozioni, i suoi ricordi, le sue sensazioni più profonde, e ha rivolto un appello ai “vecchi” attivisti che gemivano la chiesa: “Vergognamoci tutti, perché oggi non siamo uniti, perché guardiamo al nostro piccolo orticello anziché seguire la fede, la nostra fede che dovrebbe essere disinteressata e al di sopra gli interessi politici e di bottega”. Con la passione che gli è propria, padre Attilio ci ha richiamato alle nostre responsabilità a seguire il nostro percorso ideale e di fede, chiedendosi anche perché fosse toccato a noi di essere ancora vivi, mentre i nostri amici sono morti. Forse per dare testimonianza, per raccontare quei giorni bui in cui uccidere un fascista non era reato, in cui difendevamo le nostre idee e il nostro diritto a esporle.
Alla fine della cerimonia, un uomo è salito sul pulpito e ha letto una lettera struggente, in cui si immagina che Francesco Ciavatta ci scriva “dalle rive di un altro mare” e ci racconti la sua storia. La riproponiamo integralmente, specificando che è stata tratta da Ilmamilio.it ed è stata scritta da Fabrizio Giusti, che ringraziamo commossi.
Mi chiamo Francesco Ciavatta. Sono nato a Montagano, un comune con poco più di un migliaio di anime nei pressi di Campobasso, l’11 settembre 1959. I miei genitori, Angelina ed Antonio, sono di umili origini: papà è un ex minatore, mia madre ha fatto la contadina. Poi si sono trasferiti a Roma e hanno iniziato a lavorare come portieri in un condominio. Io sono il loro unico figlio. Una benedizione. Potevo crescere in provincia, invece mi ritrovo qui nella grande città dove tutto è più grande, confuso, viscerale. Ho 18 anni e ho scelto, come tanti ragazzi della mia età, di impegnarmi per una società migliore. Dicono che mi sia schierato della parte sbagliata, quella dei ”vinti”, ma in questo ambiente io ho trovato degli amici veri con i quali condivido la mia giovinezza e riesco a trovare delle risposte alla mia vita, che ancora si deve affacciare al mondo.
Tra i ragazzi di destra ho scoperto una mia dimensione. Frequento una sezione in Via Acca Larenzia, sull’Appio Tuscolano, un quartiere grande come una città e pieno di famiglie umili, proletarie, dove c’è disoccupazione e si vive con la fatica il quotidiano. Io sono un anticomunista. E a Roma, in certe zone, è difficile esserlo. Noi ci difendiamo. Tanti dei nostri in questi anni sono morti. Un nostro amico, Mario Zicchieri, meno di tre anni fa è stato falciato davanti ad una sezione del Prenestino. Gli hanno sparato con un fucile a canne mozze. E’ morto sul marciapiede, dissanguato. Io vivo dentro a questa generazione di violenti, ma sono pacifico. Tuttavia non ho paura. Assieme ai miei amici ci facciamo forza, proprio perchè siamo una minoranza, anche se la gente per molti versi ci rispetta. Facciamo battaglie sociali, cerchiamo di trovare un posto in un quartiere in cui il disagio e la disperazione vengono alla luce tutti i giorni. Ci chiamano ”fascisti”. A me, onestamente, non importa molto di questa etichetta. Io difendo la mia bandiera, altri miei coetanei usano quella rossa e sognano una nazione simile alla Russia, la Jugoslavia o la Cina, dove la repressione e l’imperialismo sono uguali a quei regimi che i ”compagni” – come si fanno chiamare – denunciano nelle scuole e nelle università per opporsi al regime dei colonnelli greci o di Pinochet. In fondo questi ragazzi sognano le mie stesse cose: un futuro diverso, un benessere che si allarghi anche a chi rimane indietro, sviluppo per il sud e gli italiani più emarginati. Tuttavia c’è un muro che ci divide e ci mette gli uni contro gli altri.
Mi chiamo Francesco Ciavatta e stasera, 7 gennaio 1978, sto insieme ai miei amici nella sede di Acca Larenzia. Le feste sono finite e dobbiamo ricominciare a fare politica. Fuori c’è un’aria pungente, le luci della piazzetta antistante la sezione sono sempre fioche. Le ombre di palazzi sono appena accennate sulla terra, come le nostre, che sembrano macchie nere distese sul pavimento bianco. E’ sabato pomeriggio. Altri vanno a farsi un giro in centro, noi invece siamo qui per servire il nostro ideale con le piccole azioni quotidiane. E’ ora di spegnere la luce e di uscire. Fuori, mentre ci apprestiamo a chiudere la sede, scorgo in lontananza delle figure camuffate. Non capisco bene. Poi sento dei botti, simili a petardi. Ci metto poco a capire che dai piloni in fondo alla piazzetta c’è gente che ci spara contro. Impugnano pistole calibro 9 e una mitraglietta Skorpion, un’arma capace di sparare venti colpi in pochi secondi. Franco Bigonzetti, un mio amico, si accascia a terra fulminato. I miei camerati si ritirano dove possono e per salvarsi rientrano dentro la sezione e chiudono la porta blindata, mentre io scappo per le scalette che danno su Via Cave. Sono ferito. Qualcuno mi insegue e mi spara nuovamente. Sento le mie gambe cedere. In mente mi scorrono tanti pensieri, la mia breve esistenza. Intorno a me c’è il silenzio, le urla di qualche residente dei palazzoni che mi coprono l’interezza del cielo, mentre con gli occhi cerco un aiuto. Ora vedo lo sguardo di chi mi viene a soccorrere. Sono i miei amici, scampati all’agguato. Mi chiedono come sto. Mi sento bruciare tutto dentro e glielo dico, poi non ci capisco più nulla. Vedo sfocato, non riesco ad udire i rumori, le voci della strada, delle macchine che passano, dei clacson. Una sirena, questa si, mi batte dentro al cervello. Sento il mio corpo sollevarsi sopra qualcosa, il mio respiro che faticosamente arranca.
Mi chiamo Francesco Ciavatta e sono morto in ospedale. Tra qualche ora un altro ragazzo della mia parte politica, Stefano Recchioni, verrà colpito in piena fronte da una pallottola sparata da un carabiniere. Morirà tra due giorni. I miei genitori, invece, sono rimasti soli. Mio padre mi raggiungerà a breve, dopo aver deciso di ingurgitare una bottiglia di acido muriatico in un giardino pubblico.
Il 7 gennaio del 1978, a Roma, è stata una giornata orribile. Ci hanno sparato contro Stato e terroristi. Siamo morti in tre, una strage infinita, fatta di dolori familiari, tragedie personali, processi mai compiuti. Tuttavia alcuni militanti dell’estrema sinistra, intervenendo nelle loro radio libere, esulteranno e scherzeranno per il nostro massacro. Diranno ”I fascisti hanno perso una Ciavatta” oppure ”Ne hanno ammazzati tre, ma sono troppo pochi”. Avevamo un sacco di progetti, di passioni e di idee, ma dovevate assassinare proprio noi? Eravamo noi i nemici? Oppure coloro che questa nazione l’hanno distrutta davvero con la costruzione di eterne trame delittuose? Eravamo solo dei ragazzi che la pensavano in modo differente dalla maggioranza. Avevamo torto? Avevamo ragione? Non lo so, non me lo sono mai chiesto.
Oggi il mio corpo riposa dove sono nato, nella tranquillità, lontano dai rumori e dalle ingiustizie di Roma. Ogni anno tante persone vengono a commemorare la mia morte e quella di chi è caduto nel meccanismo di violenza degli anni settanta. Non vi nascondo che adesso vorrei essere solo un cinquantenne con moglie e figli, anziché un martire. Ma sopratutto mi addolora non aver saputo chi mi ha strappato dalla terra, così come tanti uomini e donne che dall’altra parte della barricata – tra i militanti di sinistra – non hanno mai ottenuto verità o uno straccio di processo.
Mi chiamo Francesco Ciavatta e ora vi scrivo dalla riva di un altro mare. Lo farò finchè non avrò giustizia.
Padre Attilio è stato duro con degli ex militanti,senza indicare nessuno dei presenti ma ricordando chi stava nella strada e chi in poltrona senza andare mai oltre le righe e rispettando la commemorazione per i martiri.
Per chi che me me c’era e ha lottato in quegli anni allora queste parole sono come pugnalate !