Dirsi addio sulle note di “Idillio oceanico”, ecco la mostra sugli emigranti italiani
I primi furono gli uomini dello sconfitto esercito borbonico che, nel 1861, s’imbarcarono da Napoli su un piroscafo diretto a New Orleans. Non avevano molta scelta, d’altra parte. O la galera nelle scomode prigioni piemontesi o il viaggio forzoso per andare a combattere, inquadrati nelle fila dell’esercito sudista, una guerra civile non loro, quella di Secessione americana. La storia dell’emigrazione italiana – il più grande esodo del 900, quasi 23 milioni di emigranti italiani solo nei primi 60 anni – parte proprio da qui, da quei militari italiani emigranti che si ritroveranno a combattere, a metà dell’800, anche contro altri conterranei, emigrati, anche loro, ma schierati dalla parte avversa.
E ora una mostra, che rimarrà aperta fino al 19 dicembre nei locali del bellissimo Museo del Genio Militare, in Lungotevere della Vittoria 31, a Roma, nei pressi dello Stadio Olimpico, “Lontane Americhe – L’emigrazione degli italiani ai primi del ‘900“, curata dal vicepresidente del Niaf Italia, Francesco Nicotra, e promossa dall’Ada, ripercorre, partendo proprio da lì, da quel primissimo viaggio di emigrati, la storia dell’emigrazione italiana in America.
Proprio ora che una certa retorica terzomondista strumentalizza la storia dell’emigrazione italiana in America in chiave buonista esortandoci ad accogliere tutti, indiscriminatamente, a braccia aperte perché, giustifica, “anche noi italiani siamo stati emigranti” è opportuno vedere, con i propri occhi, qual’è la differenza, come quegli emigranti italiani, agli inizi del secolo, furono trattati nei paesi in cui arrivavano, qual’era, veramente, l’odissea di quei viaggi che gli italiani emigranti dovevano affrontare – altroché Ong compiacenti e finanziate dai vari Soros di turno – quali i controlli a cui i nostri conterranei erano sottoposti, quali infine le difficoltà per integrarsi. Cosa che poi, effettivamente, la quasi totalità fece, con le sole proprie forze, senza piangersi addosso, divenendo, con il passare degli anni, nomi di spicco della società, della politica e dell’imprenditoria statunitense. E finendo per dare grande lustro al genio italico.
Come Fiorello La Guardia di cui, proprio oggi, ricorre l’anniversario della nascita, amatissimo sindaco di New York per tre mandati a cui gi americani hanno orgogliosamente intitolato l’aeroporto della Grande Mela e il cui padre Achille era emigrato da Cerignola nel 1878.
Come lui, tanti tanti altri, negli anni successivi, soprattutto quelli a cavallo fra le due guerre e fino al boom economico degli anni ’60.
Fra il 1876 e il 1900 dall’Italia partirono 5.257.830 emigranti italiani in un periodo in cui l’età media di sopravvivenza era di sei anni e mezzo. E l’unica risorsa erano le braccia da lavoro. Si partiva per fame. Per la povertà che attanagliava l’Italia alla fine dell’800. Per cercare terre migliori da coltivare.
E si sbaglierebbe a pensare che era il Sud a fornire questa immensa forza lavoro all’America: il numero maggiore di emigranti italiani, almeno all’inizio, partiva da Piemonte, Lombardia, Veneto, Venezia Giulia e, poi, Campania.
Poi, negli anni successivi, tanti altri partirono. E le statistiche sono lì a ricordare che dietro quei numeri l’Italia cambiava.
Fra il 1901 e il 1915 lo sforzo quasi raddoppiò. Piemontesi, lombardi, veneti e campani continuarono ad attraversare l’oceano ma a loro si unirono siciliani, calabresi, abruzzesi: in quei 14 anni partirono 8.768.680 nostri connazionali. Un numero enorme di italiani. Dal 1916 al ’42, durante gli anni del Fascismo, quella cifra si stabilizzò radicalmente verso il basso, dimezzandosi: espatriarono, ricongiungendosi spesso ai parenti già in America, 4.355.240 italiani. Poi, fra il dopoguerra e il periodo del boom economico, altri 4.452.200 italiani andarono a vivere oltreoceano, in parte negli Usa, in parte in Argentina.
Lettere e cartoline, oggetti, sono lì esposti oggi a ricordare quanto non fu per niente facile salire su quelle navi e lasciarsi alle spalle l’Italia verso un futuro quanto mai ignoto.
Nelle lettere, esposte in mostra, che gli emigrati italiani scrivono, spesso dall’America a chi si appresta a seguirli su quella tratta oceanica percorsa dai piroscafi italiani, c’è tutta la precarietà e l’incertezza del quotidiano: “portate un po’ di sementi di zucca“, consiglia uno di loro ai parenti che si preparano a raggiungerlo.
Il primo piroscafo fu il Vincenzo Florio, varato nel 1880 per la tratta Scozia-New York.
Il viaggio durava, all’epoca, quasi un mese. Venti posti in prima classe, 24 in seconda e, più giù, scendendo di ponte in ponte, 800 in terza classe.
Lì, stipati fino all’inverosimile, 35 persone in uno spazio che in prima classe ne conteneva due, pochi bagni condivisi, gli emigranti italiani condividevano “dolore e spavento. E puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto”, come canta Francesco De Gregori in Titanic. Con loro, raccolte in valigie di cartone e bauli, esposti anch’essi in mostra, gli emigranti portavano i ricordi più stretti, le foto, tutto ciò che, appunto, poteva entrare in un baule o in una valigia. Il resto lo avrebbero trovato in America. O, comunque, ricreato con le proprie forze. E con l’aiuto e la solidarietà degli amici e dei parenti che erano lì.
Si partiva sventolando i Nastri azzurri che le compagnie di navigazione davano e sui cui era impresso il nome del piroscafo. Quei nastri azzurri lanciati in mare o verso il molo erano custoditi gelosamente da chi restava. Rappresentavano il ricordo dell’addio. E la speranza di una nuova vita, migliore.
Si cantavano canzoni, le cui “copielle” sono esposte in mostra, come “Mamma mia dammi cento lire che nell’America voglio andare“.
Chi restava a casa ascoltava alla radio brani come “Terra straniera“, “Idillio oceanico” o “Serenata triste” . Non sempre il viaggio finiva bene.
Il 4 agosto del 1906 il piroscafo “Sirio” della società “Navigazione Generale Italiana” partito da Genova e diretto a Mar de la Plata s’inabissò, dopo aver urtato una secca lungo la costa spagnola nei pressi di Cartagena. Morirono 300 emigranti.”Il quattro agosto alle cinque di sera / Nessuno sapeva il rio destin / Urtò il Sirio in un terribile scoglio / Di tanta gente la misera fin. Si sentivan le grida strazianti / Padri e madri coll’onde lottar / Abbracciando i cari lor figli / E sparire tra l’onde del mar”, ricordò quel naufragio una canzone, appositamente scritta che altri emigranti italiani canteranno, con il cuore stretto, nei viaggi successivi, nelle cabine di terza classe, sperando che anche il loro viaggio non finisse così. La maggior parte di loro non sapeva neanche nuotare.
Sul Carlo R. partito da Napoli nel 1893 scoppiò, invece, un’epidemia di colera e fu respinto dal Brasile. Erano partiti in 1.400, ne tornarono in Italia solo in 400.
Ma il viaggio era solo una parte dell’odissea che gli emigranti italiani dovevano affrontare.
Una volta arrivati, iniziava la trafila. Quelli di terza classe aspettavano dalle 3 alle 5 ore a Ellis Island prima di essere sottoposti a visita medica.
Il 5 per cento veniva rimandato indietro in Italia perché durante la visita medica le autorità del posto scoprivano che aveva malattie polmonari. O anche per ritardo mentale.
Gli emigranti italiani venivano sottoposti a test cognitivi, per esempio con i puzzle che ricostruivano le immagini delle navi, anche questi esposti in mostra. Era poi la volta dell’anagrafe. E lì venivano, spesso, storpiati i cognomi. La vita non era facile neanche all’arrivo. E così nascevano guide, come la “Guida dell’emigrante – dall’Italia a New York” pubblicata nel 1902 dalla Società “Navigazione Generale Italiana” per orientare chi arrivava e aiutarlo ad ambientarsi nel suo nuovo Paese.
Ai familiari rimasti in Italia si scrivevano lunghe, struggenti, lettere, spesso sgrammaticate, cercando, per quanto possibile, di rendere al meglio quella che era la vita quotidiana di chi era partito. E non sempre era facile considerando il grado di analfabetismo dell’epoca.
Ecco allora che qualcuno, più capace, si prestava per dare una mano. Oppure, al costo di 1 dollaro dlel’epoca, si metteva mano al “Segretario” un libretto “speciale per la corrispondenza delle madri, spose, fidanzate con i figli, mariti, fidanzati” tradotto in inglese e in italiano.
La vita, una volta arrivati, era durissima. Ci si ingegnava come si poteva. Antonio Meucci, il vero inventore del telefono – quando lui lo ideò, l’americano Graham Bell aveva circa 2 anni di età – produceva candele a Staten Island insieme a Giuseppe Garibaldi e morì in povertà a New York dopo che gli era stato scippato il brevetto. Un “furto” riconosciuto solo recentemente.
Oggi quel telefono originale in legno è lì, a fare bella mostra di sè, nell’esposizione “Lontane Americhe”, fra valigie di cartone, bauli, riproduzioni e modelli di piroscafi, etichette di prodotti italiani dell’epoca, foto e ricordi un po’ amari, spartiti di struggenti canzoni dedicate agli emigranti italiani. Che si lasciarono l’Italia alle spalle in cerca di miglior fortuna. Senza mai dimenticare, però, il proprio Paese, le proprie tradizioni, le proprie radici.