De Gregori boccia Pisapia e rivaluta Trump: «Non è mica un mostro…»

18 Dic 2017 16:56 - di Robert Perdicchi

«Pentito non sono pentito di niente, ma oggi alcune canzoni non le scriverei più». Per esempio, Francesco De Gregori non scriverebbe più la canzone diventata una degli inni della sinistra italiana, “La storia siamo noi”. «Ci sono versi che hanno l’olezzo del gentismo, che parlano della gente a sproposito. La mitologia della gente, oggi come oggi, viene accostata a lettura populista della vita, dell’Italia e della realtà che non mi appartiene», racconta a Vanity Fair il cantante, uno che a sinistra ha dato tanto ricevendo in cambio tanta delusione. A Malcom Pagani De Gregori parla della sua passione per Battisti, dell’Italia di oggi e di ieri, delle sue canzoni ma anche di politica. «Essere di sinistra negli anni ’70 aveva un senso, una motivazione e dei punti di riferimento che nei partiti, nella politica e nei suoi uomini trovavano senso. Non voglio dire che non sono più di sinistra, ma curiosità, attenzione e passione per quello che vedo pubblicare sui giornali sono molto diminuite. Sono meno di sinistra? Non lo so. Se essere di sinistra significa parteggiare per i deboli, sono rimasto dalla stessa parte di ieri. Purtroppo è sempre più difficile capire chi oggi nella politica esprima le ragioni dei deboli e chi dei forti, per cui mi sento un po’ perso e reagisco facendo un passo indietro. Rifiutando di indossare una bandiera in maniera esplicita come, devo dire, in fondo mi è raramente capitato di fare anche in passato».

De Gregori: io di destra?
No, ma non so che dire a quelli di sinistra

Quasi un endorsement in favore della destra, rifiutato però dal diretto interessato. «Io  di destra? No, ma se dovessi discutere con D’Alema, con Bersani o con Renzi non saprei cosa dirgli. Ascolti. Per me la partecipazione alla vita civile, che trovo nobilissima, significa pagare le tasse fino all’ultima lira. A quel punto io mi sento a tutti gli effetti dentro la politica e dentro la società. Altro è fare il tifo per qualcuno, entusiasmarsi per una legge elettorale di cui da anni non si capisce niente o perdere mezz’ora di mattina allo scopo di capire che cosa abbia detto Pisapia a Ingroia. Leggere che esiste un movimento che si chiama la Mossa del cavallo francamente mi atterrisce. E no. A quello ho detto basta da tempo. La mattina ho altro da fare: fumarmi la sigaretta al bar, andare dal barbiere o parlare con quello che pulisce le foglie ai giardinetti mi sembrano cose molto più importanti». Ma la vera sopresa arriva su Donald Trump, che a sinistra è quasi più odiato di Berlusconi: «Io ho il massimo rispetto per chi lo ha votato. Mi piacerebbe viaggiare negli Stati centrali degli Stati Uniti per cercare di capire il perché. La vittoria di Trump però non è una sorpresa. Non è un mostro piombato dal nulla. Credo che sulla sua vittoria abbiano pesato un’area liberal lontana dai problemi della realtà, una rincorsa acritica alla globalizzazione e soprattutto un’ansia estetica del politicamente corretto che personalmente ho sempre trovato insopportabile. Sulla necessità di accogliere e di aprirsi forse puoi convincere un bostoniano, ma con un abitante dell’Ohio e in certe realtà sociali disperate fatichi di più».

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