In Islanda i bambini con la sindrome di Down non nascono più. Una tendenza che fa discutere
L’emittente statunitense Cbs ha di recente fatto notare che nessun paese come l’Islanda può annoverare un numero di nascite di bambini con sindrome di Down così esiguo. Infatti da quando nel paese sono stati introdotti i test prenatali quasi tutte le donne incinte che hanno scoperto che il proprio feto era affetto da sindrome di Down hanno scelto di non portare a termine la gravidanza.
Un dato che sta facendo sorgere una riflessione di natura etica: secondo la legge islandese, infatti, l’aborto è consentito fino a sedici settimane dal concepimento nel caso il feto presenti una deformità, tra le quali rientra appunto la condizione citata. E’ lecito, facendo prevalere l’aspirazione ad avere un figlio sano, sopprimere una vita in base ad un test che può anche fallire nel suo obiettivo?
Questa tendenza all’uso molto ampio di test prenatali, e contemporaneamente la scelta pressoché unanime di non portare a termine la gravidanza in caso di esito positivo, ha fatto sì che attualmente nel paese nascano circa uno o due bambini Down all’anno, su una popolazione di 330mila persone.
Inoltre, spesso queste nascite sono la conseguenza di test che non avevano rilevato la presenza della sindrome, o avevano evidenziato rischi bassissimi.
Cbs fa notare come la tendenza islandese a un uso molto ampio della scienza per influire sulle prospettive genetiche di un’intera nazione sia qualcosa di ambiguo a livello etico, come commenta il genetista locale Kari Stefansson: “Non c’è niente di male nell’aspirare ad avere figli sani, ma è difficile decidere quanto in là ci si debba spingere nell’inseguire questo obiettivo”.
Proprio sull’informazione punta il dito Antonella Falugiani,presidente italiano di Coordown, che raggruppa diverse associazioni: «È importante sia corretta. La coppia deve poter avere tutti i dati per compiere una scelta consapevole». Le notizie dall’Islanda non stupiscono. Era solo questione di tempo e prima o poi sarebbe accaduto dicono dalle associazioni che si occupano dei diritti delle persone con sindrome di Down. Loro non si chiedevano più «se», ma «quando» e «dove».