Il nuovo oro dei comunisti è il maiale. La Cina e la guerra del cibo in un libro-verità
14 Lug 2017 12:32 - di Luca Maurelli
Lo chiamano il “miracolo del porco cinese” ed è la storia del Paese più affollato del mondo che decide di puntare tutto sull’animale più brutto e sgradevole alla vista per rinfrescare l’immagine di crescita e prosperità agli occhi di quello sconfinato marasma umano mangiante che il regime comunista definisce “popolo”. Oggi, in Cina, il cibo è propaganda e mangiare la bistecca di maiale è segno di abbondanza, benessere, quasi uno status symbol, anche perché da quelle parti gli stregoni del colesterolo, i profeti del bio, gli integralisti del veganesimo e i santoni dell’omega 3 non sono, per loro fortuna, ancora arrivati.
“Perché il maiale lì non è un semplice elemento della dieta, è una questione di sicurezza nazionale. La nuova potenza mondiale deve garantire ai propri cittadini la possibilità di mangiarne ogni giorno…”. Il valore inestimabile del porco, in Cina, paragonabile all’oro custodito nei caveau delle banche europei a copertura dei debiti del paesi occidentali, ce lo spiega Stefano Liberti, giornalista d’inchiesta che per realizzare il suo libro, “I signori del cibo” (Minimum Fax, pp.326, 19 euro) ha viaggiato (non dal computer, ma con aerei, treni e scarpe vere) “nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta”, seguendo in particolare le filiere della carne di maiale, della soia, del tonno e del pomodoro concentrato.
Il cibo, ormai, è un business per colletti grigi e invisibili, la grande finanza si muove sulle risorse alimentari con cinismo maggiore di quanto faccia con i derivati, i bond, le speculazioni petrolifere, i giochini sul mercato dei cambi. La finanza internazionale fa girare il cibo al telefono come fossero titoli al portatore mentre i grandi Paesi, quando possono, lo accumulano come ai tempi della guerra. Perché una guerra esiste davvero.
Dal maiale alla soia al tonno: così distruggono il cibo e il pianeta
Dal racconto di Liberti viene fuori un quadro da brivido: un mondo globalizzato nel quale tutti producono tutto, spesso nei posti meno adatti, molti si arricchiscono spostando le merce da una parte all’altra del mondo e in pochi, in regime di oligopolio, incardinano un sistema di sfruttamento delle risorse con coltivazioni intensive e allevamenti in scala industriale che mortificano territori, tradizioni, manovalanza, per non parlare dello strazio cui vengono sottoposti gli animali, nel caso dei maiali, ovviamente. Il risultato è un prodotto alimentare sempre più uniforme nel gusto che spesso, come nel caso del tonno, viene prima annullato poi riprodotto artificialmente col condimento: per il mondo trottano tir con una merce alimentare spesso di qualità bassissima e di dubbio profilo sanitario (per non parlare di dumping…), con enormi problemi legati alla devastazione delle coltivazioni, delle riserve marine, delle stesse risorse umane impiegate nelle operazioni di raccolta e conversione a ritmi folli dalle aziende che Liberti definisce “locuste”, con un termine entile di quello che avrebbe usato Abatantuono in un noto film sul “flagello di Dio”.
L’oro di Pechino oggi è il maiale da conservare nei depositi
Il business del maiale è forse il capitolo che meglio spiega le dinamiche geopolitiche internazionali. «Il maiale, in Cina, e più in generale la carne, è l’elemento dell’emancipazione dalla povertà, il segno con cui il governo centrale dimostra alla propria popolazione la sua potenza. La faccenda è talmente seria che in seguito alla crisi del 2006 – la morìa di maiali causata dalla febbre da orecchio blu – il Partito comunista cinese ha deciso di mettere in piedi una riserva strategica di carne di porco, costituita in gran parte da pezzi surgelati, in parte da capi vivi che le grandi aziende mettono a disposizione a rotazione” nei momenti di crisi». scrive Liberti. La scalata del maiale s’è consumata, come ultimo atto da risiko internazionale, con l’acquisizione da parte della cinese Shanghui del colosso americano Smithfield Foof, il maggiori produttore di maiali del nordamerica, operazione che di fatto ha creato il gruppo più importante al mondo, con regia e management a Pechino. Il tutto per una questione di prestigio internazionale della Cina (come avviene in Italia per il calcio) ma anche per acquisire know how da impiegare in Patria (proprio come avviene con i calciatori pagati milioni per approdare nel campionato cinese, un po’ più cari dei maiali ma con le stesse potenzialità…)-
Il viaggio tra gli allevamenti Cafo (intensivi), con maiali senza sguardo che nascono e muoiono senza neanche aver visto la luce, si sposta poi nelle coltivazioni intensive di spia del Mato Grosso, in Brasile, un’immenso serbatoio per la Cina, che attinge per mantenere gli allevamenti di maialie trovando più conveniente importare dall’estero che produrre da sé, come faceva fino a qualche anno fa nelle sue campagne sconfinate. C’è spazio anche per l’Italia, per il suo “doc” senza tutela, come per il pomodoro della Puglia, dove gli immigrati raccolgono prodotti che finiscono a centinaia di migliaia di chilometri per tornare indietro solo a produzione finita per un marchio “italjano” che è solo fumo negli occhi. Per non parlare dei tonni, risorsa preziosa e in fase di esaurimento ma che paradossalmente espande il suo mercato mondiale grazie agli allevamenti di razze spurie in luoghi improbabili per finire in scatolette low cost su cui ognuno scrive un po’ quello che vuole.
Il monito di Liberti: «Siamo tutti un po’ complici..»
«Con questo libro ho voluto lanciare un monito: L’attuale sistema alimentare globalizzato non è sostenibile, è necessario cambiare abitudini, modificare i costumi alimentari, riflettere sull’assurdità di filiere lunghe decine di migliais di chilometri e di cibo venduto a costi infimi, ragionare sul bilancio energetico di diete basate sul consumo di carne industriale la cui produzione richiede milioni di ettari coltivati solo per nutrire animali chiusi in capannoni», spiega Liberti, che ha potuto finanziare la sua inchiesta grazie alla Fondazione Charlemagne. E che, nonostante tutto – ed è questo l’ultimo scoop – non è diventato vegetariano.