Fanatici dell’antifascismo: la legge Fiano è solo una boiata pazzesca

11 Lug 2017 15:42 - di Mario Landolfi

La proposta di legge Fiano è una colossale idiozia. Se il suo scopo è impedire che qualcuno possa rifondare o riorganizzare il fu partito fascista, arriva con oltre 60 anni di ritardo perché lo fa già la legge Scelba in attuazione della XII disposizione finale della Costituzione. Se invece è quello di impedire il diffondersi di idee che rinviino al razzismo o alla violenza, arriva ancora una volta seconda perché tale finalità è già perseguita dalla legge Mancino del ‘93.

L’obiettivo è azzerare la lezione di De Felice

È quindi del tutto evidente che l’unico vero obiettivo della proposta del deputato del Pd, al tempo di internet e dei social, è far scattare il reato di apologia con un semplice clic o con l’acquisto on line di un gadget mussoliniano. Una sorta di antifascismo 2.0 con cui sradicare una volta per tutte nostalgie, rigurgiti e cattivi propositi. Dal punto di vista del proponente sarà anche nobile, ma è lecito chiedersi che cosa abbia a che fare con la democrazia e con la libera manifestazione del pensiero dal momento che – e qui siamo al punto – vi può essere l’affermazione di un pensiero fascista senza aderire all’abominio delle legge razziali e senza predicare o praticare violenza. Esattamente come ci si può definire comunisti senza necessariamente evocare i gulag, Stalin o Pol Pot. Ma il vero pericolo annidato in questa surreale polemica è il salto all’indietro che fa compiere al dibattito sul fascismo con il rischio di azzerare tutti gli elementi utili alla sua comprensione introdotti dalla storiografia a partire da Renzo De Felice. Vale la pena di citarne solo due, a testimonianza della complessità di un fenomeno che non può essere ridotto alle bischerate chiozzotte del gestore di uno stabilimento balneare o al podio delle personali inquietudini dell’on. Fiano: il fascismo come ascesa politica dei «ceti produttivi emergenti», e come tale legato alle dinamiche sociali alla base della Rivoluzione francese, e gli «anni del consenso», cioè la convinta adesione al regime da parte degli italiani, compresi quelli degli strati più popolari, negli anni ‘30.

Fiano rilegga le parole di Violante sui «ragazzi di Salò»

De Felice né parlò nella famosa Intervista sul fascismo nel bel mezzo degli anni ‘70. E fu subito scandalo. Ma le sue tesi, per quanto politicamente avversate, s’imposero poiché sorrette dal rigore scientifico e dalla totale mancanza di fini diversi da quelli della ricerca storiografica. Fu anche grazie a quelle tesi se vent’anni dopo un compagno di partito dell’on. Fiano, Luciano Violante, dal più alto scranno di Montecitorio, poté rivolgere un pensiero agli «sconfitti di Salò». Parole coraggiose che certo non azzeravano storie, identità e responsabilità ma che si preoccupavano di contribuire a rafforzare una memoria collettiva quanto mai debole rispetto ad un fenomeno storico dal quale, piaccia o meno, tuttora non si può prescindere per inquadrare e comprendere la nostra storia recente. Rinunciarvi per qualche fiasco di vino con l’effigie del Duce o per i deliri digitali di qualche provocatore è un errore da non commettere. A meno che questo Pd senza nocchiero e senza bussola non abbia già deciso di scavare nell’antifascismo d’antan la sua ultima, disperata, trincea.

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