Relazioni pericolose con Mosca? Trump smentisce: «I dossier sono falsi»
Donald Trump non si è neanche insediato che già spuntano fantasiosi dossier su di lui e sulla sua famiglia, secondo la ben collaudata macchina del fango che la sinistra internazionale accende quando vince qualche candidato non omogeneo agli interessi dei progressisti, siano essi americani o italiani. Ma è tutto falso: “James Clapper, direttore dell’intelligence nazionale, ieri mi ha chiamato per denunciare il dossier falso circolato illegalmente” e che contiene informazioni secondo cui il presidente eletto sarebbe sotto ricatto della Russia. Lo ha scritto su twitter lo stesso Donald Trump, secondo cui quel rapporto “è stato costruito con falsi fatti”. E la fuga di notizie sui presunto dossier russi su Trump sono “un pericolo per la sicurezza nazionale”, rincara lo stesso Clapper, il direttore uscente della National Intelligence, che ha condiviso, in un colloquio avuto con il presidente eletto la notte scorsa, la condanna per il comportamento dei media americani che hanno diffuso informazioni, definite completamente false da Trump, a riguardo. “Ho espresso la mia profonda costernazione per le fughe di notizie apparse sulla stampa, ed entrambi abbiamo convenuto che sono estremamente corrosive e dannose per la nostra sicurezza nazionale”, si legge nella dichiarazione diffusa da Clapper dopo il colloquio con Trump. Per il presidente eletto “le agenzie di intelligence non avrebbero mai dovuto permettere che queste notizie false arrivassero al pubblico, forse viviamo nella Germania nazista?”.
Dossier pagati prima dal Gop e poi dai Dem
La fantasiosa spy story che vorrebbe lanciare un’ombra imbarazzante sull’insediamento di Donald Trump è iniziata nel settembre del 2015 quando un “ricco repubblicano che si opponeva con forza alla sua candidatura” mette i soldi per assoldare una società di Washington specializzata in “opposition research”, vale a dire a trovare scheletri nell’armadio degli avversari. Si tratta, ricostruisce oggi il New York Times che però ovviamente non fornisce il nome del miliardario anti-Trump, della Fusion Gps, guidata da un ex giornalista del Wall Street Journal, Glenn Simpson, a cui viene dato il compito di compilare un dossier dei passati scandali del tycoon e delle sue debolezze. Per mesi così i giornalisti coordinati da Simpson accumulano documenti e file sul passato, indubbiamente colorito, di Trump. Quando, nella primavera dello scorso anno, Trump si impone come il candidato del Gop, l’interesse dei repubblicani a trovare fango su di lui scema. La Fusion Gps però continua il suo lavoro, questa volta al soldo dei democratici. Fino a qui è tutta normale amministrazione delle campagne elettorali americane che, come è noto, vengono condotte senza risparmiare alcun colpo. Cominciano ad emergere le prime notizie di attacchi hacker contro il Democratic National Committee. Simpson a questo punto assolda Christopher Steele, ex agente dell’MI6 con cui ha lavorato in passato e che ha messo a frutto i suoi 20 anni di agente specializzato in Russia aprendo un società di intelligence privata, la Orbis Business Intelligence. Comincia così a stilare i suoi ormai famosi memos, appunti di poche pagine ciascuno, che inizia ad inviare a Fusion Gps lo scorso giugno e fino a dicembre. Intanto Trump aveva vinto le elezioni e pare che alla fine né Steele né Simpson sarebbero stati pagati, ma avrebbero continuato il loro lavoro che ritenevano “troppo importante per essere fermato”. Steele già all’inizio dell’autunno ha passato una copia dei suoi memo all’Fbi, mentre in agosto l’aveva consegnata anche all’MI6. Così le copie iniziano a circolare negli ambienti giornalistici e politici americani. E quando John McCain riceve una copia ai primi di dicembre da David J. Kramer, un ex diplomatico che lavora al McCain Institute, il senatore repubblicano, su posizioni notoriamente contrarie a Trump, lo consegna, di nuovo, al direttore dell’Fbi, James Comey, innescando così la catena di eventi che ha portato alla pubblicazione dei memo. Ma il presidente eletto americano ha assicurato di “non avere nulla a che fare con la Russia, nessun accordo, nessun prestito, nulla”. Il Washington Post ha tuttavia riassunto, sulla base di un’approfondita inchiesta già pubblicata durante la campagna elettorale, i trent’anni di relazioni di Trump con la Russia che dimostrano il contrario, emerge con chiarezza che lui e la sua famiglia sono sempre stati interessati a fare affari in Russia. “E con questo?”, ribattono dallo staff di Trump. “Fare affari in America non è ancora considerato reato…”