Romanità e vita da coatto in un film: riflettori puntati su “Ab Urbe Coacta”

21 Nov 2016 10:54 - di Redazione

Mauro Bonanni, detto “barella”, che interpreta se stesso nel documentario Ab Urbe Coacta di Mauro Ruvolo , non si capisce bene se sia razzista o meno. Sicuramente però è un romano doc, uno non più giovane che vive, con la sua anima da coatto, tra il quartiere della Certosa e Torpignattara nella periferia romana. Così quando incontra degli uomini di colore che spacciano per strada non manca di dire, «sti negri del c…», «quando eravamo giovani cor c… che stavano qua», ma poi con il personale, tutto extracomunitario, della sua autodemolizione è davvero come un padre.

Le fasi più salienti di “Ab Urbe Coacta”

«A Mustafà daje, dillo che se sta bene in Italia. Che ve magnate al paese vostro? I cani», dice a un suo dipendente tunisino con quello spirito coatto e disinvolto che rivela forse l’abitudine dei romani di 2000 anni fa di confrontarsi con le altre razze dall’alto del loro Impero. Ab Urbe Coacta è non solo un felice spaccato della borgata romana di oggi, con tutte le sue contraddizioni e raccontato in prima persona da uno che ci ha sempre vissuto, ma anche l’incontro-scontro tra culture diverse tra disprezzo e fascinazione. Prodotto da Altre Storie e Screen Lab, il documentario oltre a farci seguire l’umanità paciosa del suo protagonista, che divide la sua vita con amici come er Banana e karaoke e birre, ha anche una chiusura inaspettata: il viaggio in Africa di Mauro per rincontrare un suo vecchio amico di colore. Esordio alla regia dell’eclettico Mauro Ruvolo (nipote del protagonista) che da anni lavora nella produzione audiovisiva, ma è anche musicista, montatore, trailerista e amministratore di Screen Lab, società di produzione in ambito cinematografico, “Ab Urbe Coacta” è stato senza dubbio una profonda esperienza di vita, prima che un film – dice lo stesso regista – e la grande maggioranza delle scene sono documenti che non hanno avuto bisogno di messa in scena. La spinta verso questo lavoro nasce proprio dalla necessità di documentare una romanità che sta scomparendo e che troppo poco è stata raccontata nelle sale cinematografiche».

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *