Calenda: “Con la vittoria di Trump finisce l’idea della globalizzazione”

10 Nov 2016 8:33 - di Redazione

Carlo Calenda, responsabile dello Sviluppo economico, è il ministro “americano” del governo Renzi. Fautore della globalizzazione, del libero mercato, dei grandi accordi per la liberalizzazione dei commerci. Dopo la vittoria di Trump si sente anche lei uno sconfitto? Questa è la fine della globalizzazione? «Si chiude una fase che si era aperta all’indomani della caduta del muro di Berlino. Il progetto dell’Occidente, a cui io ho molto creduto, fondato sui pilastri del libero scambio, della democrazia liberale, multiculturalismo, multilateralismo si è scontrato con la sfiducia della classe media che non crede più nel messaggio – apertura uguale progresso – percepito oggi come una favola trasformatasi in un incubo. I riformisti in tutto l’Occidente nuotano contro una corrente impetuosa. I valori di fondo rimangono validi ma vanno perseguiti e raccontati in modo diverso. Bisogna reagire rafforzando le istituzioni, governando con più forza i cambiamenti, investendo massicciamente per ricostruire la fiducia nel futuro. Stare fermi non è un’opzione. Gli accordi commerciali ci servono per riequilibrare a nostro favore la globalizzazione. Ma soprattutto dobbiamo rappresentare i fenomeni nella loro complessità e difficoltà senza cadere nella tentazione del racconto semplicistico o peggio ottimistico», si legge su “la Repubblica“.

Globalizzazione, favola trasformatasi in un incubo

Il voto americano come una rivolta contro l’establishment? hi Italia arriverà con il voto sul referendum costituzionale? «Le società occidentali si sono polarizzate. Tra vincitori e perdenti si è aperta una frattura troppo profonda. Soprattutto per questo per molti cittadini la narrazione progressista è identificata con le élite, le diseguaglianze e l’insicurezza. Ma populismo e fuga dalla realtà non sono soluzioni, e penso che dall’Italia con il voto al referendum può arrivare una risposta che assumerà un valore positivo che va oltre i confini nazionali». Moody’s fa capire che abbasserà il rating italiano in caso di vittoria del no. Non è un’ingerenza? «È evidente che istituzioni più forti ed efficienti sono necessarie per affrontare un contesto più duro e difficile. Per questo le ragioni del sì sono oggi, se possibile, ancora più attuali. Io penso che gli italiani lo comprendano bene. Ma il referendum non può diventare un derby interno al Pd, che francamente non interessa a nessuno, e non deve essere presentato come l’ennesima ordalia che vede opposti i buoni ai cattivi. Il voto è su una riforma che va discussa nel merito, rispettando le diverse posizioni e tenendo fuori dal dibattito le previsioni apocalittiche e gli allarmi delle agenzie di rating».

Cresce la paura dei renziani per la vittoria del “No”

Se prevarrà il no il governo si dimetterà? «È una decisione che spetta al presidente del Consiglio, ma la mia opinione è che in questo scenario di incertezza abbiamo bisogno di stabilità e continuità». Con Trump alla Casa Bianca tramonta definitivamente il Ttip? «È molto difficile dire cosa accadrà nei rap porti internazionali economici e politici. Il legame transatlantico rimane centrale ma immaginare un esito positivo a breve per il Ttip è arduo. Aumenta l’incertezza e questo è di per sé un problema enorme. Dobbiamo evitare che il commercio mondiale, che vive già un consistente rallentamento, regredisca. Scongiurare un ritorno al protezionismo è la priorità perché “dove non passano le merci passano gli eserciti”». L’Europa sarà marginale per l’America di Trump? «L’Europa si sveglia oggi più sola. L’America in questi anni è stata il puntello di una costruzione europea divenuta fragile anche perché paralizzata da una governance debole e una membership eterogenea. Questo assetto non tiene in uno scenario internazionale più difficile dove realismo, rapporti di forza e interesse nazionale tornano protagonisti. Non possiamo aspettare le elezioni tedesche per invertire la rotta».

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