Lettera al ministro Lorenzin: «Mio padre ucciso dal cancro e dall’indifferenza»
Più di due giorni di agonia nel pronto soccorso di un ospedale romano, il San Camillo, per morire senza dignità tra il via vai di malati e parenti. Queste le ultime 56 ore di un malato terminale di cancro che il figlio, un giornalista di Askanews, ha voluto raccontare in una lettera al ministro della sanità Beatrice Lorenzin per descrivere non solo il calvario di una malattia passata a combattere anche contro “l’indifferenza dei medici” ma anche quell’epilogo fatto di umanità espropriata. «Signora ministra, sono passati tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte – scrive Patrizio Cairoli – metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti. Nonostante il male ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso». Ma nel racconto che Cairoli fa della malattia del padre “dignità” sembra essere una parola dimenticata. «Mio padre aveva sempre più dolori – scrive – … un calvario nella totale indifferenza di medici… Nessuno ci ci ha detto di rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre. Quando l’ho fatto era ormai troppo tardi: quando mio padre è finito al pronto soccorso del San Camillo gli è stata somministrata la morfina».
Qui l’uomo morirà 56 ore dopo. «Cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale… Accanto anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti – scrive amaramente Cairoli – Nell’orario delle visite la sala era sovraffollata… Abbiamo protestato… non abbiamo ottenuto nulla». Appena un paravento per ridare dignità a chi sta morendo. «Uno perché gli altri servono per garantire la privacy durante le visite – scrive ancora Cairoli -… Ci siamo dovuti ingegnare». Gli ultimi minuti di vita di un uomo così sono sottratti a curiosità e estranei da “un maglioncino con lo scotch tenuto sospeso tra il muro e il paravento” e “i nostri corpi a formare una barriera”. «È successo a Roma, capitale d’Italia», conclude la lettera Cairoli.