Pennacchi: guardare alla storia del Msi è utile, oltre le versioni di comodo

22 Ott 2016 14:07 - di Adele Sirocchi

Antonio Pennacchi, premio Strega nel 2010 col suo bestseller Canale Mussolini,  è stato camerata e poi compagno. Il romanzo che gli ha dato notorietà si intitola non a caso Il Fasciocomunista. La sua iniziazione alla politica avvenne a Latina-Littoria, città permeata dalla memoria del Ventennio e del Duce bonificatore. Pennacchi è stato uno dei volontari nazionali guidati da Alberto Rossi all’epoca della segreteria Michelini.  Nel 1968 venne espulso dal Msi per avere organizzato una manifestazione contro la guerra in Vietnam. Però Pennacchi mantiene un buon ricordo del federale di Latina, Ajmone Finestra, che così ricorda nel suo romanzo autobiografico Camerata Neandertal: “Aveva svolto oggettivamente su di me – durante l’adolescenza – anche un ruolo di tipo paterno-putativo. Abbiamo pure litigato. Ma abbiamo sempre e solo parlato di politica, fascismo, guerre, tedeschi e americani, bonifiche e Agro Pontino. E poi di Stalin di Hitler e di Mussolini… Quello a me m’ha insegnato Giovinezza, Battaglione del Duce e Camerata Richard e forse pure un po’ d’educazione”. Pennacchi è sempre rimasto legato ad Ajmone Finestra: “Non ci aveva mai insegnato la violenza o l’illegalità, mai sentita una parola da lui che non fosse una condanna totale delle leggi razziali”. Questo per dire che Antonio Pennacchi di cattivi maestri nel Msi non ne ha incontrati e anzi ha confessato, presentando a Roma il romanzo Vittoria. Una storia degli anni Settanta, che ai funerali di Finestra si è pure lasciato andare al rito del Presente!. Però un conto sono le vicende personali, gli echi e le memorie che si respirano a Latina (nei suoi scritti Pennacchi racconta che nell’agro pontino si aggirano ancora i fantasmi del Duce in motocicletta e di Claretta che lo attende fiduciosa e innamorata…), un conto è il giudizio storico sul Msi nel suo complesso.

Una mostra sul Msi, a 70 anni dalla fondazione di quel partito, può aiutare a fare chiarezza sulla storia della destra italiana?

«L’interesse storico è sempre utile a inquadrare bene i fenomeni perché se si guarda al primo dopoguerra senza pregiudizi e con la lente d’ingrandimento si vede che non esiste il bianco e il nero, il bene e il male, ma che le cose sono più sfumate anche se ne sono state date versioni di comodo».

Il Msi ha subito una lunga demonizzazione che derivava dal suo legame con il fascismo. Ma la sua funzione fu solo quella di tenere in vita la Fiamma della nostalgia?

«Il Msi ha tentato di riprodurre al suo interno ciò che il sistema totalitario aveva prodotto nel Pnf: ha messo insieme gente che tra loro non aveva molto a che spartire, la sinistra fascista con gli ambienti legati alla Confindustria. E questa comunità era tenuta insieme da uno spirito di revanche: abbiamo perso ma ritorneremo. Quando poi la destra ha avuto la sua occasione di governare, quella differenza che il Msi aveva vantato con le sue critiche alla partitocrazia non è emersa».

Oltre ad Almirante quali altri personaggi sono stati centrali nella storia del Msi?

«All’inizio Romualdi e De Marsanich. Poi c’è la grande funzione svolta da Arturo Michelini, che fa superare al Msi tutte le traversie degli anni Cinquanta e Sessanta. La linea di Michelini sarà poi quella ripresa da Alleanza nazionale. Non dimentichiamo che il Msi non è stato solo quello degli anni Settanta, quando si scatena tra i giovani una guerra civile. C’erano state intuizioni importanti, cha puntavano a far andare avanti il partito, oltre la retorica e la nostalgia. Posizioni che si scontravano sempre con la diffidenza della base che accusava di tradimento chi voleva fare passi avanti. E’ accaduto con Democrazia nazionale e tutto sommato è la stessa sorte toccata a Gianfranco Fini».

La mostra è dedicata al popolo missino, un popolo dove c’era di tutto, proletari e contesse…

«C’era il sottoproletariato, c’era la piccola borghesia e c’erano le contesse. La classe operaia però non c’era. A questo popolo non è stato fornito però un progetto politico in senso classico, era un popolo unito dal desiderio di rivincita e dal richiamo all’ordine, dalla paura dell’avanzata comunista e dalla critica a certe forme di modernizzazione sociale».

Eppure se il Msi fosse stato solo un partito reazionario e nostalgico non avrebbe attirato tanti giovani, che invece furono la forza di un movimento cui veniva negata piena agibilità…

«I giovani sono sempre stati attratti dai miti, dai valori, dall’idea della Patria da difendere, da far tornare all’antica grandezza. Questo attirava certo molti giovani i quali peraltro si muovevano dentro un modello culturale fondato ancora sull’autorità. Un modello che viene scardinato con il Sessantotto dopo il quale si impone una mentalità diversa e la gioventù diventa una gioventù anti-sistema».

 

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