Referendum, ecco perché abolire il Cnel sarebbe un errore
Tra i tanti quesiti referendari, quello sull’abolizione del Cnel, il Consiglio Nazionale dell’Economia e de Lavoro, appare il più sottovalutato. Nel corso del confronto televisivo, a “Porta a porta”, tra la Ministro Maria Elena Boschi e Stefano Parisi la questione è stata saltata a piè pari dal conduttore, Bruno Vespa, considerando il Consiglio un vecchio rudere da abbattere senza nostalgia. Solo l’Ugl – per voce del suo segretario generale, Paolo Capone – lo difende. «La riforma Renzi-Boschi – ha spiegato Capone – taglia spazi di democrazia, non produce efficaci miglioramenti nei processi legislativi, non modifica in senso presidenziale l’assetto istituzionale, rende molto più complesso il ricorso ai referendum. Ma soprattutto cancella il Cnel che ha rappresentato, nel bene e nel male, il luogo d’incontro tra il mondo della produzione e il mondo del lavoro, una sorta di bilateralità ante litteram. È davvero singolare che la sua cancellazione avvenga proprio quando il dialogo tra sindacati e imprese sta, seppur timidamente, incamminandosi verso forme più simili alla ‘partecipazione’ che alla ‘concertazione’».
Il Cnel ha grandi potenzialità ma è mal utilizzato
L’organismo non costa più di tanto. I circa 20 milioni di euro spesi dallo Stato per mantenere in vita il Consiglio (tra costo della sede, personale, consiglieri e presidente) sono ben poca cosa, di fronte ai buchi e agli sprechi del bilancio pubblico. La questione – diciamolo chiaramente – è “di sostanza” e richiede perciò qualcosa di più dell’assordante silenzio che accompagna il tentativo di abolirlo. In realtà, con l’eliminazione di uno degli “organi ausiliari”, previsti dalla Costituzione, si vuole porre fine all’ultimo, debole tentativo di dare spazio e voce alla rappresentanza per categorie e agli interessi organizzati della società civile (dei 64 consiglieri 10 sono “qualificati esponenti della cultura economica, sociale e giuridica”; 48 sono “rappresentanti delle categorie produttive di beni e servizi nei settori pubblico e privato”, di cui: 22 rappresentanti dei lavoratori dipendenti, tra i quali 3 “rappresentano i dirigenti e i quadri pubblici e privati”; 9 rappresentanti dei lavoratori autonomi e delle professioni; 17 rappresentanti delle imprese; 6 rappresentanti delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni del volontariato). Nel momento in cui la crisi della rappresentanza politico-parlamentare sembra avere toccato livelli altissimi e il dialogo sociale stenta a ripartire, uno “strumento” come il Cnel può essere ancora utile ad indicare una possibile via d’uscita, non solo prefigurando quanto rendendo evidente un nuovo, diverso sistema rappresentativo. Il Cnel ha in sé grandi potenzialità, rappresentando, come emerse in sede di dibattito alla Costituente, uno degli elementi più significativi ed evolutivi rispetto alla tradizione giuridico-sociale post unitaria e liberale, legandosi idealmente, se non manifestatamente, per evidenti motivi di opportunità politica, con le esperienze corporativistiche del Ventennio e con la migliore scuola del solidarismo cattolico.
Un organismo da ripensare più che da abolire
E’ anche per questo che dà fastidio ? Non lo crediamo, convinti come siamo che Matteo Renzi e la sua pattuglia di “rottamatori” non sia neppure consapevole del livello e dell’importanza di un dibattito, che, in sede di Assemblea Costituente, vide la partecipazione, tra gli altri, di Costantino Mortati, Luigi Einaudi, Giuseppe Di Vittorio. Questioni vecchie – si dirà. Ma questioni che – oggi, come ieri – sono il nocciolo della crisi del nostro sistema-Paese, della sua vita politica, dell’ordinamento sociale, della stessa tenuta economica. Se va indubbiamente riconosciuto che alle speranze della vigilia e all’importanza del dibattito che ne accompagnò la nascita, non ha corrisposto un adeguato “uso” di tale strumento istituzionale (che non può esaurirsi in qualche decina di proposte di legge, nelle centinaia di testi di “osservazioni e proposte”,di “rapporti e studi”, di “relazioni”, di “protocolli e collaborazioni istituzionali” e di “dossier”) bisogna prendere atto che, nel corso degli anni, non è stato sciolto il nodo essenziale sulla collocazione del CNEL rispetto ad altri organismi di rappresentanza-consultazione, sia quello della sua “riconoscibilità” da parte del mondo delle categorie e della produzione. Più che abolito il Cnel va allora “ripensato” e rilanciato in ragione delle sue potenzialità e del ruolo che le categorie produttive ed il mondo del volontariato potrebbero svolgere, in una prospettiva autenticamente “ricostruttiva”, con lo sguardo rivolto al “dopo”, alla necessità-opportunità di sperimentare concretamente un modello partecipativo “integrale” ed autentiche forme di inclusione sociale. Magari con lo sguardo rivolto al Senato, oggi destinato a lasciare il posto ad una disorganica “Camera delle Autonomie”, al quale potrebbe invece essere riservata la funzione di “Camera della programmazione”, puntando sulla concretezza sociale, quale base di un più maturo riformismo istituzionale, che dia voce e spazio alle categorie produttive, ai rappresentanti dei lavoratori e delle imprese, alle professioni e al volontariato. Nel Cnel tutto questo c’è già, segno non di un’istituzione inutile, quanto piuttosto di un organismo poco e male utilizzato.