Burkini da vietare. E con le suore come si fa, anche loro in bikini?
Burkini sì o no? Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, se ne lava le mani. La polemica non lo appassiona. Fabrizio Cicchitto invece ricorda a Matteo Salvini che un conto è il burqa – indumento che presenta rischi per la sicurezza perché la persona è completamente coperta – e un conto il burkini. E così ci pensa Filippo Bubbico, viceministro dell’Interno, a gettare nel fuoco della polemica più accesa dell’estate qualche ramoscello dialettico per alimentare la fiamma. E le suore allora? Le vogliamo costringere ad indossare il bikini in spiaggia? Già, perché anche loro, quando e se vanno al mare, indossano l’abito religioso con tanto di velo.
Burkini, la crociata laicista della Francia
La matassa da dipanare è appunto questa: quella sposata dal primo ministro francese Valls è una crociata laicista o femminista? E’ frutto di islamofobia o di occidentalismo esasperato? Come mettere la parola fine a una discussione così complicata mentre infuria l’offensiva dell’Isis non è dato sapere. Ma una cosa è certa: la Francia, secondo l’Osservatorio sulle discriminazioni contro i cristiani in Europa, è il paese con il più alto tasso di episodi di intolleranza verso i cattolici. Un esempio per tutti: il divieto di ostentare simboli religiosi nelle aule scolastiche. Un provvedimento che si abbatte sul velo islamico ma anche sul Crocifisso. Va ricordato in proposito che l’ordinanza anti-burkini del sindaco di Cannes, che ha dato il via alla polemica, se la prende con un “abbigliamento da spiaggia che manifesta ostentatamente la propria appartenenza religiosa”. Il sindaco di Villenueve-Loubet ha vietato l’accesso alla spiaggia di tutti coloro che non indossano una tenuta rispettosa del “principio di laicità”. Se si prendono alla lettera le ingiunzioni di questi sindaci per un codice di abbigliamento “laico” anche le suore – per tornare all’esempio di Bubbico – dovrebbero essere soggette ad una multa perché non si mettono il costume da bagno…
Il femminismo, come spesso accade in questi frangenti (vedi i fatti incresciosi del Capodanno a Colonia), appare in imbarazzo: le donne si vestano come vogliono. L’imperativo è di certo conciliabile con il credo delle suffragette sull’autodeterminazione delle donne. Ma come si fa a stabilire se le islamiche col costume integrale hanno scelto con coscienza di andare al mare così vestite o se sono stati i maschi di famiglia a scegliere per loro? Impossibile. Ma se ci si vuole addentrare sui binari dello scontro di civiltà allora sarebbe bene opporre al burkini il valore della libertà e non quello della laicità esasperata.
Ma la moda islamica ha un fatturato in continua crescita
E mentre politici e opinionisti italiani si appassionano anche troppo all’argomento, si ignora il fatto che la moda per le donne musulmane è ormai un business che sta facendo breccia anche in Occidente. In Francia, Germania e Regno Unito la Islamic Fashion ha una platea di consumatori che ha fatto registrare i 25 miliardi di dollari di introiti. Dopo Valentino, Dolce & Gabbana, Prada, Victoria Beckham, Yohji Yamamoto e altri anche marchi più popolari hanno scoperto un filone fruttuoso: così Zara e Mango hanno lanciato una Ramadan Collection, come H&M, rivolta ai consumatori musulmani. La domanda di “modest fashion”, ogni anno, è in grande crescita esponenziale. Si tratta di un giro d’affari di oltre 240 miliardi di euro. A supporto di questa tipologia di mercato, c’è ll’islamic Fashion Design Council, un’associazione volta allo sviluppo e alla promozione della moda islamica nel mondo. La ministra della famiglia francese, Laurence Rossignol, commentando mesi fa il boom della “moda islamica” aveva già creato polemiche a non finire osservando che una donna che porta il velo è come un nero a favore della schiavitù. Eppure la moda islamicamente corretta vede ai posti di comando diverse manager. Insomma in definitiva l’abbigliamento delle musulmane può diventare solo un fatto di moda da non caricare di valori religiosi? La pensa così il filosofo cattolico Camille Rhonat che invita a vedere nel velo non un simbolo religioso ma un accessorio, più o meno come i nostri foulard.
La moda infine può essere poco comprensiva per le donne, ad esempio imponendo sulle passerelle modelle anoressiche. Uno stile preso in giro dalla scrittrice marocchina Fatima Mernissi quando ringraziava Allah per averla salvata dalla tirannia della taglia 42 imperante in Occidente. E del resto non è che le musulmane siano tutte sottomesse alla cultura del velo: tra i casi più eclatanti quello di Irshad Manji, musulmana dissidente e femminista, autrice di un pamphlet ferocemente critico verso l’Islam tradizionale, Quando abbiamo smesso di pensare, nel quale racconta la sua soddisfazione quando si è potuta finalmente liberare dallo hijab. E’ necessario forzare i tempi o le donne possono farcela da sole a liberarsi?