Meloni o Parisi? Il centrodestra gioca a “populisti” e “moderati”

8 Giu 2016 11:26 - di Carmelo Briguglio

Dopo il primo turno delle amministrative a Roma e Milano – al ballottaggio è scontato l’esito nella Capitale, invece è battaglia all’ultimo voto per conquistare Palazzo Marino – nel centrodestra circola un teorema: la destra populista – leggasi Salvini e Meloni – non vince, quei due avranno sempre bisogno dei moderati, in particolare del partito di Berlusconi. E, appunto, si citano i casi di Roma e Milano, a conferma di questa tesi. La leader di FdI – modello “populist” – senza Forza Italia, non è riuscita ad andare al ballottaggio. Invece, Stefano Parisi, “laudato” candidato moderato, di formazione riformista, è riuscito nell’impresa difficile di pareggiare con Sala, di tenere unita la coalizione e di andare al secondo turno con buone possibilità di farcela. Il ragionamento non è fine a se stesso, porta a conclusioni che si vorrebbero trarre, con un’approssimazione poco attenta, rudimentale.

Xenofobia politica e conventio ad excludendum contro Lega e Fdi ?

La prima. I candidati apicali – in comuni, regioni e domani a Palazzo Chigi – non potranno mai essere di Lega o Fdi; dovranno essere sempre azzurri, iscritti a FI o di area, ma scelti da Berlusconi. Tale “conventio ad excludendum” interna al centrodestra porta all’assunto che il candidato moderato è sempre più attrattivo del populista, per definizione; ovvero il candidato tanto più “centrista” è, tanto più possibilità ha di penetrare nell’elettorato e di vincere. O, addirittura, il populista è affetto da un “male oscuro”, incapacitante.
È una sorta di neo-razzismo politico o, se si vuole, una distinzione eugenetica, tra adatti e inadatti. Certo, il paradosso nel centrodestra – che in senso lato è “la destra” – di una xenofobia rovesciata eccita i media: la cittadella dei signori perbene che ostracizza leghisti e nipotini dei neofascisti, è una bella storia da raccontare. E il sillogismo sarebbe perfetto. Se non dovesse superare un paio di obiezioni, non proprio facili facili.
La Lega governa, con suoi presidenti, la Lombardia e il Veneto, in passato anche il Piemonte: i populisti sono stati eletti al vertice delle più importanti regioni del Nord, in alleanza con i moderati, che si sono accontentati di fare “i secondi”: vicepresidenti, assessori, presidenti dei consigli. La gente ha eletto i leghisti Maroni, Zaia e Cota: non è vero che per vincere bisogna avere il candidato moderato. Inoltre, nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica e dal Msi ad An, e negli anni successivi, i post-fascisti – non proprio etichettabili come moderati – furono candidati ed eletti a presidente della regione, sindaco, presidente della provincia, alla testa di schieramenti in cui i moderati c’erano, ma cedevano il primo posto agli uomini della destra radicale. Storace e Pace, Rastrelli e Polverini, Moffa e Musumeci, Viespoli e Stancanelli, Alemanno e Scopelliti – per citare alcuni casi – sono stati eletti – governando poi bene o meno, a seconda di chi giudica o valuta – ma con punte alte di consenso. Nella testa della gente, le categorie moderati-centristi e radicali-populisti non esistono. I cittadini guardano, oggi come ieri, alla credibilità della persona e a quello che vuole fare per il suo territorio. Stop. Nessun sofisma.

Oltre tutto, lealtà a senso unico, senza reciprocità ?

L’ottimo risultato di Giorgia Meloni – leader della destra parlamentare, radicale, populista, eurocritica – attesta che, se i moderati di Forza Italia fossero entrati nella coalizione che la sosteneva, a Roma la presidente di Fdi sarebbe andata al ballottaggio con la Raggi, con qualunque risultato finale possibile. Questo è un fatto. Eppure, alcuni commentatori della “stampa di destra” scrivono genericamente di sconfitta a causa della “divisione”, senza specificare che andava altrove – a partire dall’ex federatore – sapeva bene ciò che faceva e quali conseguenze avrebbe provocato. E ciò oltre la “non politica” di sentimenti e risentimenti, reciproche recriminazioni, personalismi, rancori; e conti antichi e recenti da regolare o regolati, con alterne puntate – alcune ricordate e altre rimosse secondo le convenienze richieste dalla polemica del momento – quasi sempre presenti in un dopo-voto, ma che ancora ardono troppo nella classe dirigente post-An: “cose” legittime, ma “individuali” – politica vissuta intensamente come “sangue e merda”, avrebbe detto il vecchio Rino Formica – come tali da rispettare; le quali, oggi, però perdono di valore e fanno smarrire il senso politico e lo stesso principio di realtà che i risultati delle elezioni dettano con sufficiente chiarezza e dinanzi ai quali non è possibile chiudere gli occhi. Le urne “parlano”.
Resta la questione politica del preteso obbligo di lealtà unilaterale dei candidati populisti verso i moderati e non viceversa; come una minorità ontologica dei populisti che autorizzerebbe la non reciprocità con i moderati. Come spiegare, allora, perché il partito di Giorgia Meloni debba essere – e lo è – solidale col candidato Parisi scelto da Berlusconi a Milano – capitale dei suoi interessi politici ed economici – e invece l’ex Cavaliere abbia potuto negare il suo sostegno a Giorgia Meloni che ha provato a fare il sindaco della sua città ? Questa è la sostanza politica di quanto accade sull’asse Roma-Milano.
Una questione di pari dignità e di collegialità che il centrodestra futuro dovrà porsi e risolvere. E non ci sarà bisogno di applicare alcun teorema indimostrabile, e neppure le teorie di Nash o di Hotelling o il paradosso di Condorcet. Basta il buonsenso. Anche perché il confronto diretto, nel centrodestra, tra la candidata populista e il candidato moderato c’è già stato: a Roma, al primo turno. Sappiamo com’è andata.
Un esempio empirico che vale più di qualunque teorema. Basta trarne la necessaria lezione politica per il futuro.

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