Ma la destra con chi si schiera: con Davigo o con la politica che decide?
Il dibattito sulla giustizia offre oggi tutte le contraddizioni che una politica incapace di decidere ha generato negli anni e con colpe che coinvolgono trasversalmente tutti i partiti. Un primo dato emerge ripresentandosi con puntuale ciclicità: la figura di Piercamillo Davigo che richiamandosi al “mito di fondazione” della seconda Repubblica, cioè Tangentopoli, si erge a paladino di un desiderio frustrato di rinnovamento replica uno schema già visto in passato. Si pesca tra i magistrati simbolo dell’anticorruzione per trovare un leader alternativo a quello dominante sulla scena politica. Davigo è oggi l’anti-Renzi così come in passato il Borrelli che declamava lo slogan “resistere, resistere, resistere!” fu l’anti-Berlusconi assieme ai vari Di Pietro e Ingroia. C’è qualcosa di inquietante in questa ripetizione dello schema, in questa tautologia malata, in questa incapacità di definire con precisione il campo della giustizia e quello della politica. Oggi è il Pd (quello renziano) a soffrire maggiormente le degenerazioni del rapporto magistrati-classe politica. Ed è giusto che sia così perché in passato ha sempre esitato dinanzi alla necessità di una riforma condivisa della giustizia, concorrendo in modo robusto alla “santificazione” dell’Anm e usando lo scontro toghe-Berlusconi per portare acqua al vetusto mulino che doveva fabbricare la favola della sinistra quale “parte migliore” della società italiana. Ma soffre, il Pd renziano, anche per il protagonismo grillino che ripete con maniacale costanza lo slogan “Onestà! Onestà”. Quello è il vero esercito avversario per Matteo Renzi, un esercito che non a caso ha adottato Davigo come generale.
E va aggiunto che il silenzio del centrodestra rispetto allo scontro tra il governo e Davigo confonde ancora di più le acque: certo Berlusconi non ha alcun interesse a correre in soccorso di un premier che proviene da una parte politica che del mantra sul conflitto d’interessi e sulle leggi ad personam ha fatto il proprio canovaccio politico per un ventennio. Prevalente, nell’area del centrodestra, è un altro problema: quello della successione. Ma l’afasia sul punto della giustizia è emblematica perché nell’incertezza di schierarsi da una parte o dall’altra si legge in filigrana il tormento sotterraneo su quale forma avrà la destra italiana nell’immediato futuro: sarà più garantista o più legalitaria? Sarà indifferente al protagonismo invadente dei magistrati o predicherà il primato della politica? Sarà capace di competere con il grillismo nel fare pulizia tra le proprie file? Sono domande per le quali ancora non esistono risposte certe e che intanto condannano il centrodestra alla marginalità politica. Così un esponente del Pd come il senatore Stefano Esposito (l’ex assessore di Ignazio Marino che voleva ‘purificare’ la bucrocrazia capitolina) ha buon gioco a buttarla in cagnara, definendo l’interventismo di Davigo come un “mix di grillismo con venature di destra”.
In ballo c’è comunque l’annosa riforma delle intercettazioni (che stavolta hanno messo nei guai una ministra renziana e non un esponente berlusconiano…) e sulla quale Angelino Alfano si riprende un piccolo spazio di tribuna, intimando ai giudici di occuparsi dei reati e di non contrastare i governi. “Basta – dice – far cadere i governi su questioni giudiziarie”. Un gioco delle parti perfetto: mentre Renzi tende la mano ai giudici per non irrigidire una dialettica che minaccia di farsi sempre più aspra, è l’ex Guardasigilli di Berlusconi ad andare all’attacco. L’Anm lo avrà notato, e forse non mancherà di apprezzarlo.