Stato-mafia, l’ex-Dc Mannino assolto «per non aver commesso il fatto»

4 Nov 2015 13:32 - di Paolo Lami

La formula assolutoria è micidiale e non lascia spazio ai dubbi: «per non aver commesso il fatto». Con questa motivazione il gup di Palermo, Marino Petruzzella, ha assolto l’ex-ministro Calogero Mannino dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato nell’ambito del procedimento stralcio dell’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, laddove gli altri imputati – ex-ufficiali del Ros, politici e capi mafia – sono processati con rito ordinario dalla Corte d’assise di Palermo.
La camera di consiglio del processo che si celebrava in abbreviato è stata velocissima e questo è un altro segnale della piena consapevolezza con la quale il gup ha demolito il castello accusatorio dei pm.
«Spero che sia per Mannino la fine di un incubo giudiziario – ha commentato, a caldo, l’avvocato Nino Caleca, uno dei legali dell’ex-ministro Dc – I processi penali non sono i luoghi più adatti a ricostruire la Storia. Si fanno con i fatti e per accertare precise condotte penali».
Immediata la reazione dei pm, Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi: «Impugneremo la sentenza. Noi andiamo avanti». Ma il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi frena in suoi battaglieri magistrati: «valuteremo – dice – se impugnare la sentenza dopo averne letto le motivazioni. L’impugnazione è probabile, ma se non si leggono le motivazioni della sentenza non ha senso anticipare giudizi».
«Grazie – dice, intanto, Mannino rivolgendosi ai suoi legali che lo hanno, per il momento, tirato fuori dall’incubo di una condanna – Questa di oggi è sicuramente una decisione coraggiosa che conferma la fiducia che ho sempre mantenuto nella giustizia e nei giudici, nonostante sia stato vittima dell’accanimento e dell’ostinazione di alcuni pm». Parole durissime contro il pm Vittorio Teresi, pubblica accusa nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa che lo ha visto imputato, ma al quale chiaramente l’ex-politico rivolge le sue pesanti parole.
Nella ricostruzione della Procura di Palermo, temendo per la sua incolumità, grazie ai suoi rapporti con l’ex-capo del Ros Antonio Subranni, Mannino nel ’92, avrebbe fatto pressioni sui carabinieri perché avviassero un “dialogo” con i clan. In cambio si sarebbe adoperato per garantire un’attenuazione della normativa del carcere duro.
L’ex-ministro democristiano si è sempre difeso da queste accuse negando ogni coinvolgimento nelle vicende che gli sono state contestate.
Dopo 23 mesi di processo la Procura ne aveva chiesto la condanna a 9 anni. Fino al colpo di scena di oggi.
Plurindagato per vicende di mafia, Mannino ne è sempre uscito indenne, in qualche caso dopo un lungo iter giudiziario che lo ha anche visto finire in carcere.
Nel 1991, accusato dal pentito Rosario Spatola, morto poi nel 2012, di aver avuto rapporti con Cosa Nostra, è stato scagionato nel giro di venti giorni dalla Procura di Sciacca con un decreto di archiviazione che è una pietra tombale per le dichiarazioni e la credibilità del pentito: «Lui non parla per scienza propria ma riferisce notizie che assume di avere appreso da altre persone». Notizie che si sono rivelate totalmente infondate. Tanto che i magistrati annunciano, nello stesso decreto di archiviazione di Mannino, un’inchiesta contro il pentito: «C’è la necessità – scrivono i magistrati – di approfondire nella sede territoriale opportuna la condotta di Spatola al fine di accertare quali sono stati i motivi e le finalità che l’hanno spinto ad accusare mendacemente l’onorevole Mannino, malgrado la sua completa ignoranza di fatti e di notizie in ordine alla persona e all’operato dello stesso».
Tre anni dopo, nei primi mesi del 1994, La Procura di Palermo gli spedisce un avviso di garanzia e un anno dopo, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, lo manda in carcere dove resterà per nove mesi prima di finire agli arresti domiciliari che saranno revocati tredici mesi dopo per scadenza dei termini di custodia cautelare.
I magistrati palermitani lo accusano, in definitiva, di voto di scambio per aver fatto un patto con Cosa Nostra per avere voti in cambio di favori.
Viene assolto in primo grado con la formula «perché il fatto non sussiste» ma in secondo grado, dopo il ricorso dei pm, viene condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione perché ritenuto colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa. Una sentenza annullata dalla Cassazione con un epitaffio micidiale sui magistrati palermitani: «Nella sentenza di condanna di Mannino non c’è nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c’è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che possa valere a sostanziare l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe essere mai scritta…».
La nuova Corte d’appello di Palermo che decide sulla base del rinvio della Cassazione assolve Mannino perché il fatto non sussiste. Potrebbe finire qui. E, invece, il Procuratore generale di Palermo ricorre in Cassazione. Che, nel 2010, assolve definitivamente l’ex-ministro Dc.
Nel febbraio 2012 Mannino viene nuovamente indagato. Sempre dalla Procura di Palermo. Sempre con accuse di mafia. Fino all’assoluzione di oggi da parte del gup «per non aver commesso il fatto».

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