L’ipocrisia buonista di dire “islamista” invece di “islamico”: urge battaglia culturale

16 Nov 2015 15:20 - di Aldo Di Lello

La battaglia al terrorismo islamico è anche una battaglia culturale. Dalla cultura alla politica il passo è breve. A ricordarcelo è Ernesto Galli della Loggia in un articolo di fondo uscito sul Corriere della Sera. La battaglia culturale dovrebbe cominciare innanzi tutto dalle parole. Secondo un consolidato canone buonista l’odierna aggressione terroristica non sarebbe riconducibile all’Islam bensì a un non meglio precisato “islamismo” . In realtà il mondo islamico non conosce questa distinzione. “Islamismo” è un termine coniato dalla politologia europea. Pensiamo al saggio di Bruno Etienne pubblicato in Italia nel 1988, L’islamismo radicale. È  una distinzione che può avere le sue giustificazioni, soprattutto politiche (come formula, servirebbe a scongiurare la “guerra delle civiltà”), ma alla lunga risulta fuorviante e non ci permette di individuare con precisione le dinamiche del fanatismo criminale che si sta abbattendo contro il modello di vita e di società dell’Europa. «Come faccia – scrive Galli della Loggia – il terrorismo che tutti, ma proprio tutti, definiscono islamista a non avere nulla a che fare con l’Islam, è qualcosa che dovrebbe, mi pare, richiedere una spiegazione».

La spiegazione è semplice. “Islamismo” fa comodo a tutti. Fa comodo ai governi europei per ragioni di Realpolitik, perché permette loro di non urtare la suscettibilità dei rappresentanti del nondo islamico . Fa  comodo soprattutto all’Islam “moderato”, dal momento che gli consente di rimanere nell’ambiguità e di evitare di fare seriamente i conti al proprio interno, isolando e combattendo come dovrebbe le componenti più radicali. Fa  comodo in particolare a Paesi come l’Arabia Saudita, che da un lato si dicono amici dell’Occidente, e dall’altra finanziano in modo sempre meno occulto l’Isis e le altre organizzazioni jihadiste. “Islamismo” fa anche comodo agli imam più rappresentativi delle comunità islamiche residenti in Europa, perché permette loro di mantenere la coesione politica tra i loro fedeli, senza introdurre elementi di divisione in comunità per le quali  la religione rappresenta un forte cemento identitario. «Ciò che lega le mani» al mondo islamico  moderato – osserva sempre l’editorialista del Corriere – , impedendogli «regolarmente di farsi sentire e di opporsi alle imprese sanguinarie degli altri, è il ferreo ricatto della comunanza religiosa. Ed è sempre questo ricatto-vincolo che a suo modo crea nella gran parte dell’opinione pubblica islamica, nelle sterminate folle delle periferie come negli strati più elevati, se non una qualche tacita complicità, certamente l’impossibilità di dissociarsi, di schierarsi realmente contro».

Ora però non è più tempo di ambiguità. Le ragioni della  “tregua” semantico-culturale  si sono esaurite. Tutti devono assumersi le proprie responsabilità. L’islam “moderato” deve scegliere da che parte stare. È insufficiente ad esempio quanto dichiarato da personalità come  Ahmed al Tayyeb, l’imam del Cairo, all’indomani della mattanza di Parigi. «Profonda condanna degli assurdi attacchi terroristici a Parigi a nome dell’Islam che è innocente sul terrorismo». Islam «innocente»? Lo sarà lui personalmente. Ma non sono innocenti i numerosi imam che incitano al Jihad. Non sono “innocenti” le masse di fanatici che incendiano in piazza i simboli del cristianesimo e  che rappresentano la base di reclutamento degli “shahid”.  I massacri di Parigi sono stati rivendicati dall’Isis con il richiamo a una sura del Corano. Se non è Islam, che cos’è?

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