Contropittura: Echaurren “si racconta” dagli indiani metropolitani alle carceri

19 Nov 2015 18:15 - di Gloria Sabatini

Se c’è contropittura, c’è contromuseo. C’è vita, curiosità, creatività corale. Sono oltre duecento le opere di Pablo Echaurren in mostra da venerdì 20 novembre negli spazi della Galleria nazionale di arte moderna e contemporanea (fino al 6 aprile). Il nerbo della mostra Contropittura è rappresentato dall’impegno politico, che forse ci restituisce il senso più autentico dell’opera dell’artista, difficilmente classificabile nelle categorie destra-sinistra. L‘esposizione, curata da Angelandreina Rorro, è una mosaico tematico dell’arte di Echaurren, pittore ad appena 18 anni (scoperto precocemente   da Arturo Schwarz, “patron” del Dadasurrealismo), vignettista, scrittore, sceneggiatore. Un artista complesso che ha fatto  «tante cose diverse», come dice lui stesso, anche se per il grande pubblico resta uno che ama soprattutto baloccarsi con i media («l’ottica della Rorro dà un filo rosso che attraversa tante cose che qui non ci sono e mette insieme pezzetti della mia vita, ricostruendo un percorso unico nel quale mi riconosco anche di più di altre cose fatte in passato…») 

Echaurren: dai quadratini a oggi

La mostra presenta tele, disegni, collage in un viaggio documentato che parte dagli anni Settanta per arrivare all’attualità. Si comincia con i lavori d’esordio, i “quadratini” (acquerelli e smalti di piccole dimensioni), che riflettono i miti generazionali (politica e musica) e le inclinazioni personali ( scienze naturali e collezionismo). Poi si entra nel cuore di Contropittura, che è dedicato all’esperienza degli “Indiani metropolitani” alla quale Echaurren aderì da convinto protagonista. Seguono le grandi tele degli anni Ottanta  e alcuni collage degli anni Novanta composti con manifesti politici e pubblicitari. Non mancano le più recenti “pitture da muro”, che creano un nuovo alfabeto simbolico. Riflettori e sguardi puntati, dunque, sulla “Contropittura” di Echaurren, nella quale la pittura scende fino al foglio stampato mentre il fumetto diventa quadro in una intrigante visione ironica dell’attualità.

Dagli indiani alle carceri

Tra il 1971 e il 1975 Echaurren espone a Berlino, Basilea, Filadelfia, Zurigo, New York, Bruxelles e nel 1975 è invitato alla Biennale di Parigi. Con i “quadratini” firma le copertine di alcuni volumi della casa editrice Savelli, tra cui il romanzo Porci con le ali del 1976. Di lì a breve decide di abbandonare la veste di pittore per partecipare all’avanguardia degli “indiani metropolitani” e immergersi nel clima acre dell’epoca. Sensibile e attento alle ragioni degli altri, fu legato da una profondissima amicizia con Giano Accame, con il quale condivise tante serate casalinghe (insieme alla moglie Claudia Salaris) e lunghe riflessioni. Ebbe il coraggio, ricambiato dai ragazzi di destra, di realizzare, nei primi anni Ottanta, un manifesto e un volantino per Fare Fronte, l’organizzazione studentesca vicina al Msi. Dalle avanguardie storiche Echaurren ha imparato soprattutto a vedere vivere l’arte (che preferisce chiamare creatività) come una dimensione diffusa, contagiosa, corale. Da qui  la sua lunga attività in contesti sociali disagiati, come il laboratorio tenuto con un gruppo di detenuti nel carcere romano di Rebibbia, o alcuni libri di ambientazione carceraria e un film per la televisione, Piccoli ergastoli, presentato alla mostra internazionale del cinema di Venezia nel 1997.

Perché Contropittura?

«Si tende a definire “contro” qualcosa che in qualche modo polemizza, discute lo stato presente delle cose – spiega Echaurren – io penso che un artista non è qualcosa di diverso dal resto dell’umanità. È un po’ come un operaio: l’operaio è sensibile alla propria condizione, non lascia che siano sempre gli altri a decidere per lui, vuole, vorrebbe avere voce in capitolo. Se lo licenziano, se lo sfruttano oltremodo, l’operaio sciopera, si allea con gli altri, si organizza, protesta. Credo che questo sia il minimo che uno debba fare per salvaguardare la propria condizione, non capisco perché gli artisti raramente trovino l’occasione, la volontà, le ragioni di comportarsi allo stesso modo, di mettersi insieme tra di loro, di discutere sui propri destini». L’arte non deve essere un atto solitario, isolato, elitario. Non è mai un fine ma uno strumento,  qualcosa che permette di esprimere il proprio punto di vista sulla realtà. Quasi una tecnica di sopravvivenza.

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