La superstite di Nagasaki: vi racconto come sono sopravvissuta all’atomica
Ha 85 anni, non usa il computer, scrive ancora a mano ed è molto riservata. E’ una donna speciale Kyoko Hayashi: la sua vita stessa è testimonianza, ancora di più in questi giorni in cui non solo il suo Giappone ma tutto il mondo ricorda, o meglio è costretto a ricordare. Kyoko Hayashi è una scrittrice ma soprattutto è una hibakusha, così si chiamano i sopravvissuti alla bomba atomica di Hiroshima e Nagasaki sganciata il 6 e il 9 agosto 1945 dagli Stati Uniti per accelerare la resa del Giappone. In questi giorni, con l’aiuto e la traduzione di Manuela Suriano, in occasione dell’uscita per la prima volta in Italia (da Gallucci editore) di ‘Nagasaki’, 4 suoi racconti, Alessandra Magliaro l’ha intervistata per l’Ansa. – Come è riuscita a sopravvivere fisicamente e psicologicamente ad una tragedia così indicibile, persino al di là del conto dei morti, tra i 100 mila e i 200 mila, quasi esclusivamente civili? “Le ferite spirituali degli hibakusha continuano nel presente e anche nel futuro. Le sostanze radioattive assorbite dall’organismo aderiscono agli organi interni e, finché non si esauriranno del tutto, continueranno a emettere radiazioni per un tempo molto lungo. Questo ‘nemico interno’ rimane nella vita degli hibakusha. Il 6 e il 9 agosto sono date infinite, proprio perché le sostanze radioattive assorbite continuano ad esserci, sia che si sviluppino in tumori e altre malattie o meno. Per questo non è possibile superare le ferite: bisogna conviverci”. –
“Il problema della bomba atomica non si ferma ad una generazione”
Lei è diventata un’autrice, una scrittrice-testimone, come per noi italiani è stato Primo Levi. Scrivere del bombardamento atomico cosa significa per lei? “Il problema della bomba atomica non si ferma a una generazione ma continua con i figli, i nipoti: è un problema di sopravvivenza delle generazioni future. Subito dopo lo scoppio della bomba atomica sono fuggita dalla fabbrica in cui mi trovavo e mi sono diretta verso l’epicentro. In mezzo alla grande quantità di cadaveri, mi sono sentita grata di essere viva. Era terribile vedere i morti intorno a me, pensare che altre mie compagne forse non ce l’avevano fatta, ma ero felice di essere viva, di avere avuto la fortuna di riuscire a fuggire incolume. Uscire viva dalla distruzione totale mi ha dato la forza per scrivere”. – Lei non aveva neppure 15 anni, frequentava la scuola superiore femminile che in quella fase della guerra fu richiamata a partecipare allo sforzo bellico andando a lavorare in una fabbrica di armi, 52 sue compagne morirono come racconta in ‘Nagasaki’. Un evento così grave segna inevitabilmente l’esistenza, in questi anni ha voluto ricordare rimanendo in contatto con altri sopravvissuti? “All’epoca parlare della bomba atomica era un tabù e soprattutto quando ero giovane non riuscivo a farlo. Era un’esperienza personale ma parlarne significava coinvolgere le persone vicine, e anche per i familiari aveva conseguenze negative. Non c’era nessuna comprensione nei confronti degli hibakusha. Non volevamo parlarne neanche tra compagne di scuola perché avrebbe significato ricordare come ci eravamo messe in salvo, chi era scappata prima, che malattie avevamo avuto e cose di questo tipo. Così non sono rimasta in contatto con altri hibakusha. Con gli anni però ci si è resi conto che il 6 e 9 – la scrittrice chiama così il bombardamento, per date ndr – sono un problema troppo grande perché si tratta del rapporto tra uomo e nucleare, ed era necessario riflettere e superare la paura della discriminazione. Anche se non incontravo altri hibakusha, soprattutto mentre scrivevo Il luogo del rito, mi arrivavano le notizie di amici che morivano. Erano le sostanze radioattive che continuavano a uccidere, la bomba atomica non era finita”.