Destra e Dc ai funerali di Gustavo Selva. I ricordi di viaggio di “Belva”

18 Mar 2015 18:17 - di Paola Sacchi

Si sono celebrati questa mattina, nella chiesa di piazza San Lorenzo in Lucina, i funerali del giornalista ed esponente di Alleanza nazionale Gustavo Selva. Al rito, officiato da monsignor Rino Fisichella, in un clima di grande commozione hanno partecipato numerosi esponenti della destra italiana, da Ignazio la Russa a Gianfranco Fini, Adolfo Urso, Giulio Terzi e Andrea Ronchi, nonché personaggi di spicco della Democrazia Cristiana come Arnaldo Forlani, Pierferdinando Casini, Gerardo Bianco e Lorenzo Cesa, ma anche il radicale Marco Pannella. A seguire ospitiamo un ricordo di Gustavo Selva scritto dalla giornalista Paola Sacchi, già a “Panorama” e all’“Unità”.

Ora una certa sinistra politically correct lo ricorderà come quello che pur di non perdersi una «comparsata» a «La 7» prese un’ambulanza al posto di un taxi e per questo fu condannato per truffa ai danni dello Stato. Ma Gustavo Selva, anche in tutte le cariche che ha occupato da politico in An e poi nel Pdl, da deputato, da presidente della Commissione Esteri della Camera, nel secondo governo Berlusconi, e infine senatore, è sempre rimasto un combattente della notizia. Un giornalista, di quelli con la «g» maiuscola. «Belva» sì, come battezzarono Radio Rai2 che diresse dopo aver percorso tutta la scala gerarchica, da cronista parlamentare, a inviato speciale, a capo di uffici di corrispondenza internazionali, ma una «belva» affamata di voglia di conoscere il mondo e i suoi protagonisti. Selva è il giornalista che da presidente della commisione Esteri di Montecitorio condusse il 14 febbraio del 2002 parlamentari e alcuni cronisti parlamentari, tra i quali la sottoscritta, a Kabul, per far loro capire come girava un po’ il mondo oltre il corridoio ovattato dei passi perduti di Montecitorio. Era una delegazione di parlamentari bipartisan che partì con lo scopo di far visita ai militari italiani dell’Isaf di stanza ad Abu Dhabi, da dove si poteva partire per Kabul solo a bordo di un C130 dell’aeronautica militare. La collega Maria Grazia Cutuli, del Corriere della sera, era morta pochi mesi prima in un agguato dei talebani, Hamid Karzai si era da poco insediato. Le pallottole sibilavano più che mai nell’aria dell’ Afghanistan. Quindi, era chiaro che ci si doveva fermare solo ad Abu Dhabi, negli Emirati arabi, ultimo avamposto prima dell’inferno afghano, solo apparentemente diventato purgatorio. E invece no. «Belva» durante l’ultima cena, prima del ritorno in Italia, al ristorante dell’Intercontinental di Abu Dhabi si impuntò: «Domani andiamo dal mio amico Karzai». Marco Minniti, allora Ds, e altri parlamentari del Pdl, lo guardarono increduli. Alcuni giornalisti si misero a ridere. Insomma, l’atmosfera diceva: «Questo è pazzo». E, invece, si scoprì che lui era davvero amico di «Hamid». Il giorno dopo la delegazione italiana fu ricevuta nel palazzo presidenziale di Kabul. Arrivati all’aeroporto (ammesso che quello fosse un aeroporto) fummo prelevati dai militari a bordo di un pullmino. Alle donne, parlamentari e giornaliste, fu subito consegnata un panno di seta striato da mettere sulla testa. L’allora comandante dell’Isaf esordì con un obbligatorio e poco rassicurante: «Se sparano abbassate la testa». «Belva» si fece una risatina. La stessa che fece alla cronista, allora collaboratrice di Panorama, che, sfuggita al suo controllo, si imbucò, in seguito alla soffiata di un militare, sul pullmino giusto, ovvero quello riservato a senatori e deputati, per raggiungere il Palazzo presidenziale. La sottoscritta si mise la sciarpa afghana in testa, ma i parlamentari ad un certo punto la riconobbero e accusarono Selva che non c’entrava assolutamente niente, di averla favorita. Fatto sta che a un certo punto la delegazione si mise a litigare su chi poteva entrare e chi no al Palazzo presidenziale e non si cura più della sottoscritta a quel punto abbandonata a se stessa. E che all’ingresso del Palazzo presidenziale si presentò incautamente, per automatismo professionale, con un giornale, peraltro scritto in lingua araba, sotto il braccio. Fui immeditamente fermata dagli uomini della Sicurezza di Karzai, ragazzini, alcuni dei quali si scoprì in seguito erano talebani. Lei è un giornalista?- mi chiesero. Risposi: No, sono un fotografo. Ed esibii una vecchia macchinetta fotografica. Mi ammisero, dopo una perquisizione comprensiva di un abbraccio che lambì il fondoschiena. Feci finta di niente. E entrai nella sala dove Karzai stava incontrando la delegazione. Una foto, due foto. E cercarono di buttarmi fuori invitandomi in una sala dove venivano offerti pasticcini e dove, secondo i ragazzini body guard rivelatasi poi talebani, sarebbe passato Karzai. Capii che era esattamente il contrario. Accesi una sigaretta sottile che attrasse il loro interesse. «Se volete vi regalo tutto il pacchetto», dissi ai ragazzini che lo afferrarono al volo. Fu un lampo. Ero già di fronte al presidente Karzai, al quale, tra i mitra, incominciai a fare una raffica di domande. La prima, più ovvia e scontata, fu: «Perché lei è considerato da Tom Ford l’uomo più elegante del mondo?». «Belva» non credeva ai suoi occhi e incomiciò con un «ma che c…mi conbimi?». Ed io: «Dimmi piuttosto come si dice esercito in inglese che non me lo ricordo». «Belva»: «Army,però spicciati…». Eravamo lungo le scale del Palazzo, percorse tutte di fretta. La sera di ritorno all’Intercontinental ad Abu Dhabi prima formalmente mi rimproverò, poi mi sussurrò: «Brava, il giornalista lo fai così o non lo fai». Panorama ebbe l’intervista, seppur esile e fortunosa, a Karzai prima di Time. Grazie allo spericolato Selva.

Era lo stesso che portò un’altra delegazione di parlamentari in Kosovo nel 2004, quando i musulmani presero ad attaccare i monasteri dei serbi ortodossi. Era il venerdì di Pasqua. «Belva» fece carte false e telefonate a raffica per incontrare Ibrahim Rugova a Pristina. L’incontro si protrasse per ore e ore. I militari dicevano in modo poco rassicurante ai giornalisti: «Spicciatevi, sennò passate la Pasqua ai “4 Scarafaggi” (così era soprannominato l’unico decente Hotel di Pristina), potete partire finché c’è la luce del giorno, l’aeroporto funziona così». Ennio Remondino, la star dei giornalisti della guerra del Kosovo, tra l’ironico e il rassegnato mi disse: «Siamo ostaggio di un pazzo». Umberto Ranieri, Ds, napoletano borghese ed elegante, esplose con un: «Ma io ch’aggia fa se chisto è ‘nu scumbinato!». Ovvero, una «Belva» affamata di notizie sui protagonisti delle cose del mondo.

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