Storace: «Con An l’Italia scoprì la destra. Ma fu un errore scioglierla…»

27 Gen 2015 8:11 - di Antonio Pannullo
Francesco Storace

Francesco Storace è stato uno dei protagonisti di Alleanza Nazionale, e fu uno di quelli che sin dal primo momento ne capì l’importanza, condividendo e sostenendo le intuizioni di Tatarella e di Fini. «Sì, non è vero che i due non andassero d’accordo, al contrario erano molto uniti anche dal punto di vista umano, oltre che politico. Certo, qualche volta da parte di Pinuccio ci poteva essere l’insofferenza della persona più grande rispetto al più giovane, ma tutto si fermava lì, era un fatto caratteriale».
Ci parli del suo famoso articolo sul Secolo d’Italia dell’aprile 1993…
Prima ci fu l’articolo sul Tempo di Domenico Fisichella, nel quale lui lanciò questa idea, sottolineando però l’assenza di una vera destra in Italia e auspicando che i tempi fossero maturi. Dopodiché nel partito iniziò un profondo dibattito sull’idea di un’alleanza nazionale. C’era poi in quel momento, diciamocelo chiaramente, l’estrema necessità di non far sparire la destra in Italia, perché quello sembrava il pericolo imminente. Così mi confrontai con Fini e Tatarella, ne parlammo a lungo, e quell’articolo fu l’espressione delle idee di tutti e tre. C’è poi da dire che quei contenuti furono vistosamente amplificati da un successivo articolo di Francesco Merlo sul Corriere della Sera, intitolato “Msi, morire per rinascere Alleanza Nazionale”. Quello dette la via.

Che cosa intese dire con quel messaggio?
Partimmo naturalmente dall’idea di Fisichella, ma condendola, se così si può dire, arricchendola di contenuti sociali, di temi cristiani, affrontando anche il problema dell’immigrazione che cominciava a fare capolino anche in Italia. Insomma, fu il frutto di una maturazione collettiva.

Come fu accolta questa svolta?
Devo dire che fu accolta benissimo, sia dalla stampa sia – lo abbiamo visto – dagli elettori. Triplicammo i voti del Msi, l’Italia finalmente scopriva una destra. Per quindici anni diventammo protagonisti della storia di questa nazione.

E poi che successe?
Ci ammalammo. Contraemmo un virus chiamato “potere”. Negli enti locali arrivammo al punto di non far cadere un’amministrazione che non funzionava, privilegiando la pura gestione del potere ai contenuti. L’ultimo quinquennio in particolare fu terribile, perché si anteponeva il virus ai valori. Prima la destra governava, magari anche sbagliando, ma con entusiasmo, prova ne sia che i primi sindaci missini eletti in quella famosa tornata elettorale furono tutti rieletti. Poi subentrò una stagione negativa, le condizioni mutarono: Moffa alla Provincia e io alla Regione non rinnovammo il primo mandato, e devo dire, certo non per colpa della nostra amministrazione. Perdemmo dappertutto.

Cosa ricorda tra le molte cose realizzate alla regione Lazio?
Tantissime, veramente. Ma c’è una cosa di cui vado orgoglioso: l’anno prima che si varasse la legge sul Giorno del Ricordo, io come governatore la promulgai nel Lazio. C’era grande ostilità a sinistra verso il ricordo delle foibe, e non era detto che in parlamento la legge Menia passasse. Scrissi al presidente Ciampi per comunicargli la mia iniziativa, e nel suo messaggio di risposta Ciampi città sia l’esodo sia le foibe. Era fatta, tutti dovettero accettare la legge.

Poi lei uscì…
Sì, accadde quando Fini annunciò l’intenzione di andare verso i Popolari europei. Mi sembrò che si stesse disperdendo il patrimonio di An e così feci la mia scelta. Visto dall’esterno, poi, mi sembrò un errore e un orrore sciogliersi nel Pdl, e i fatti, purtroppo, mi hanno dato ragione. Era chiaro che nel Pdl i nostri valori non avrebbero potuto affermarsi, perché era comandato da un liberale, un uomo che non aveva vissuto le nostre stagioni “eroiche” e aspre…

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