Addio a Rosi: tutta la verità, niente altro che la verità…

10 Gen 2015 15:36 - di Priscilla Del Ninno

Se ne va anche Francesco Rosi: il regista napoletano si è spento a 92 anni, acquietando per sempre quella voglia di indagare. Di capire. Di conoscere e di raccontare che ha animato tutto il suo cinema. Se n’è andato in silenzio, Rosi, nella sua bella casa-studio di Via Gregoriana, circondato dall’affetto di amici e discepoli che di lui hanno amato l’amore per la verità, il rigore morale, la passione civile e l’umanità. Figlio di borghesi napoletani (il padre gestiva una compagnia marittima), laureato in legge, attratto da una carriera di illustratore per bambini che gli rimarrà in fondo all’anima, il regista ha avuto al fianco negli anni amici come Raffaele La Capria e Giuseppe Patroni Griffi.

Tra storia e cinema

Un «maestro» per i suoi colleghi. Un «insigne italiano» per tutti i rappresentanti istituzionali che in queste ore gli stanno tributando altisonanti parole di commiato. Un «fratello» per Franco Zeffirelli, che con lui ha condiviso le prime esperienze sui set di Visconti. Un narratore onesto della storia degli italiani di cui il regista nato a Napoli nel 1922 ha raccontato con lealtà e disincanto molti importantissimi capitoli. «Fare cinema – disse una volta in un’occasione pubblica Rosi – significa contrarre un impegno morale con la propria coscienza e con lo spettatore. Gli si deve l’onestà di una ricerca della verità senza compromessi». Oggi, nel giorno dell’addio e del ricodo di una vita trascorsa sul set, possiamo tranquillamente affermare che il cineasta partenopeo è riuscito senz’altro a tenere fede al suo dogma morale prima ancora che professionale. E tutti i premi, i riconoscimenti critici e le attestazioni popolari – dal Leone d’oro a Venezia per Le mani sulla città, alla Palma di Cannes per Il caso Mattei, fino alla Legion d’onore, e passando per i tributi alla carriera di Locarno e Berlino, senza contare Grolle, David e Nastri – caduti a pioggia su ogni titolo della sua filmografia, ne sono la tangibile dimostrazione. Oltre che la conferma di una capacità rara di rileggere in controluce brani della nostra storia civile, fotografata per immagini e raccontata sul grande schermo da un integerrimo assertore del cinema d’impegno sociale.

La “dittaura” della verità

Un artigiano della settima arte, Rosi, che attraverso la lente cinematografica ha esaminato e messo a fuoco usi e malcostumi italici che hanno contribuito a scandire le tappe del cammino etico del Paese. Un lavoro che senz’altro ha avuto la sua massima espressione nella realizzazione de Le mani sulla città, pellicola datata 1963 e a tutt’oggi uno dei primi esempi di “cinema verità” in cui, puntando la macchina da presa sulle sedute del Consiglio comunale napoletano, il regista annuncia, a colpi di totali dell’aula e suggestivi primi piani, quello che sarà un conflitto amministrativo tra posizioni e interessi diversi, che finiscono con il ruotare attorno a un controverso personaggio della politica mestierante a metà strada tra imprenditoria e malaffare. Una sorta di anticipazione, al limite del profetico, di quello che accadrà con la fase di “mani pulite” e nel dopo Tangentopoli. Segno della intramontabilità e della sconcertante attualità della pellicola, e della proverbiale lungimiranza del regista, attento osservatore e fine narratore di sintomi e malesseri poi conclamati che hanno afflitto il Bel Paese, senza arrogarsi mai il diritto di suggerire la terapia politica dopo aver offerto la diagnosi sociale e i suoi effetti collaterali morali.

Etica ed estetica dei suoi film

Difficile negare, infine, che in film come Le mani sulla cittàSalvatore GiulianoIl caso MatteiUomini controLucky Luciano, fino ai profetici Cadaveri eccellenti e Dimenticare Palermo, l’aspirazione etica sia andata di pari passo con una personalissima ricerca estetica. Una ricerca funzionale al filone del film-inchiesta, anche se il cinema di Rosi non si è fermato a questo (basta pensare al filone storico che va da Uomini contro a La tregua, da Cadaveri eccellenti a Cristo si è fermato a Eboli), perchè se è vero che la dittatura della verità ha imposto al regista di muovere sempre da indagini scrupolose, è pur vero che, riletti con gli occhi di oggi, quei film hanno segnato lo spartiacque tra il cinema-documento e il cinema della finzione. E pensare che pochi sanno che a Rosi in realtà piaceva molto ridere, e che la sua prima folgorazione cinematografica era stata Charlot. Che suonava e ballava la musica di Count Basie. Che ascoltava i Jethro Tull, Chet Baker e la grande opera…

 

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