Natale 1979: L’Urss invade Kabul. È il Vietnam sovietico e l’inizio della fine

24 Dic 2014 9:38 - di Antonio Pannullo

Il 24 dicembre 1979 soldati sovietici entravano a Kabul, la capitale dell’Afghanistan, dando inizio a quella che è conosciuta come l’invasione dell’Urss nel Paese centro asiatico. In realtà Mosca era da tempo presente in Afghanistan, sia con “consiglieri” civili e militari, sia con uomini del Kgb, il servizio segreto, sia con truppe vere e proprie. L’invasione, che sarebbe durata dieci anni e che si sarebbe conclusa con un ritiro ignominioso dell’Armata Rossa, si inquadrava nella cornice della Guerra Fredda tra le due allora superpotenze, Urss e Usa. Ma non solo: ad appoggiare i mujaheddin afghani c’era una coalizione internazionale assai composita e bizzarra: oltre agli Usa, scesero in campo contro il governo comunista di Kabul il confinante Pakistan, il Regno Unito, la Cina, l’Arabia Saudita, e addirittura l’Iran, nemico giurato di Washington. E comunque anche l’occupazione sovietica, che fu tutt’altro che tenera, fu solo una parentesi nella guerra civile afghana, che veniva da lontano e che in realtà non è ancora finita. L’Unione Sovietica, che aveva già all’attivo le sanguinose invasioni di Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia, non ebbe scrupoli a intervenire per appoggiare il governo marxista afghano, sostituendone però il presidente Amin, giudicato troppo violento, col più moderato – e vicino a Mosca – Karmal. Va detto che le varie tribù afghane si combattevano da tempo su tutto il territorio, e che erano più che mai frazionate. Tuttavia, l’intervento militare di un’altra nazione in qualche modo cementò i mujaheddin contro l’invasore. Ma essi non ebbero mai una guida unitaria, né prima, né durante, né dopo il conflitto.

Resistenza alla sovietizzazione del Paese

Il governo di Kabul aveva iniziato, sin dalla metà degli anni Settanta, una rigida sovietizzazione del Paese, le cui zone agrarie erano fedeli all’islam, causando feroci contrasti sociali. Le campagne resistettero alle “riforme” e presto si crearono formazioni di guerriglieri anti-sistema che si sarebbero chiamate mujaheddin. Il governo rispose con una serie di esecuzioni sommarie, non solo a Kabul ma un po’ in tutto l’Afghanistan, con decine di migliaia di oppositori passati per le armi e milioni di profughi. Verso la metà del 1979 25 delle 28 province del Paese erano sotto il controllo degli anti-governativi, con stragi, mutilazioni, esecuzioni sommarie anche di civili da entrambe le parti. Civili russi e l’ambasciatore americano furono assassinati. Fu a questo punto che l’Urss lanciò forze terrestri e aeree nel tentativo di normalizzare la situazione e appoggiare un governo fratello, su pressione sia del ministro degli Esteri Gromyko sia del capo del Kgb Andropov. L’esperienza del Vietnam non aveva insegnato nulla ai sovietici, mentre gli americani ne fecero tesoro e iniziarono ad appoggiare i guerriglieri in tutti i modi. Il presidente Carter iniziò ad autorizzare una serie di operazioni di supporto agli anti-governativi. L’invasione fu chiamata dal Cremlino Operazione Storm 333, e prevedeva l’impiego di forze speciali in divisa afghana e mezzi militari con contrassegni locali. A leggere le cronache di ieri, sembra di rivivere quelle di oggi: gli stessi luoghi, da Kabul a Bagram, da Herat a Kandahar; l’Afghanistan non ha ancora pace, quale che sia il suo invasore. Ovviamente le Nazioni Unite, pur in presenza di un ordine del giorno di forte condanna, non intervennero per il meccanismo del potere di veto dell’Urss. Si calcola che in tutto il conflitto Mosca impiegò oltre 600mila uomini. Parteciparono anche un centinaio di cubani e di consiglieri provenienti dalla Germania est. Con la divisa dell’Armata Rossa combatterono anche limitati contingenti di etiopi, vietnamiti e siriani. Uno dei protagonisti della guerra fu certo il temibile Mi-24 sovietico, l’elicottero da guerra – temutissimo dalle popolazioni – che abbiamo ammirato in Rambo III. I mujaheddin, come detto, operarono sempre in modo separato, tra i principali capi si ricorderanno Hekmatyar, capo dei tagiki e dei pashtun, islamico, appoggiato dal Pakistan; poi Rabbani, Yuinis Khalis, Sayyaf, tutti fondamentalisti.

Gorbaciov capì che l’Urss doveva andare via

E poi naturalmente Massoud, detto il leone del Panshir, famoso nel mondo per aver combattuto prima contro i sovietici e poi contro i talebani che presero il potere dopo la cacciata dei russi. Dopo una guerra senza quartiere, finalmente nel 1985 Gorbaciov, frattanto salito al potere, capì l’inutilità di continuare la guerra e preparò una strategia di uscita. Che si concretizzò nel febbraio del 1989, non senza però che l’esercito sovietico sferrasse un ultimo sanguinoso attacco proprio contro Massoud, impiegando artiglieria e velivoli sulla popolazione civile. Il 15 febbraio 1989 il generale Gromov, ultimo comandante della 40a armata, attraversò il ponte sull’Amu Darya dichiarando di essere l’ultimo soldato sovietico a lasciare l’Afghanistan. Si presuppone che le perdite, tra soldati russi e e mujaheddin siano state complessivamente di centomila unità, ma quelle dei civili afghani sono stimate tra uno e due milioni di persone, oltre a sette milioni di profughi. Il che, su una popolazione che non raggiungeva i trenta milioni di persone, non è male. Ma inaspettatamente, il regime comunista di Kabul non cadde subito, riuscendo a resistere all’offensiva mujaheddin. Bisognerà attendere il l’aprile del 1992 prima della caduta di Kabul a opera degli islamici, che introdussero lo Stato islamico dell’Afghanistan. Nel 1996 la fazione talebana prese il potere. Il comandante Massoud lasciò Kabul nel 1996 e si ritirò al nord sempre combattendo i talebani. Dai quali, nel 2001 fu ucciso in un attentato suicida da due fondamentalisti che si finsero giornalisti. Alle sue esequie c’erano centomila persone.

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