Il “sistema” Mose va smantellato. Di chi fu l’idea? Fu partorita dall’Iri di Romano Prodi

5 Giu 2014 14:53 - di Silvano Moffa

Più norme non significa meno corruzione. Anzi, più è spesso il reticolo legislativo, più alto è il rischio che venga perforato, aggirato, eluso. Il ribollente, disgustoso calderone del maleodorante malaffare delle tangenti sulle grandi opere pubbliche, dall’Expo al Mose, passando per le centinaia di altre opere incompiute del nostro sciagurato Paese oggetto di inchieste della magistratura, ripropone la vecchia questione di come , con quali mezzi e attraverso quali forme, garantire il rispetto della legalità e la corretta realizzazione di quel che viene appaltato. Dopo lo scandalo della Laguna, vedrete, ne sentiremo di tutti i colori. Ognuno proporrà la sua ricetta, potete giurarci. Ha un bel dire, il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, che non servono inasprimenti di sanzioni né nuove legge per cambiare un sistema bacato; che il marcio  si annida laddove proliferano norme, codicilli e regolamenti spesso contraddittori e poco decifrabili. Parole, le sue, che dovrebbero far riflettere e convincere chi di dovere (in primis, Parlamento e Governo) a cambiare  davvero registro.

“La madre della corruzione, 20 anni fa come oggi, non è solo l’avidità umana, ma appunto la complessità delle leggi”, sottolinea il magistrato. “Al di là della inchiesta di oggi , voglio ricordare quanto scrissi già 15 anni fa: una delle cause della corruzione deriva dalla farraginosità delle leggi, dal numero delle leggi e dalla loro incomprensibilità e da una diffusione di competenze che rende difficile individuare le varie responsabilità”. Ragionamento sacrosanto, che non fa una piega. Eppure, già si odono squilli assordanti di chi guarda il dito quando il saggio indica la luna. Invece, basterebbe ripercorrere la storia del Mose, dalle sue origini fino alla retata di oggi, per cogliere l’essenza profonda dei problemi con cui bisogna misurarsi se si vuole evitare ulteriore disdoro al nostro Paese e restituire onorabilità alla sua classe dirigente. Il sistema delle “paratoie mobili” messo in piedi per salvare Venezia dall’acqua alta è un esempio evidente di come si possa, in virtù delle deroghe, sconfinare nell’illecito.

Siamo a metà degli anni Ottanta, tanto per intenderci, quando nell’ufficio di Ettore Bernabei, patron di Italstat, una costola dell’Iri guidata da Romano Prodi, nasce l’idea di affidare al fior fiore dell’imprenditoria italiana la realizzazione di un’opera di così alto valore tecnico  e di ancor più consistente tenore finanziario. Debutta così il Consorzio Venezia Nuova, un pool di imprese private che diventa, grazie ad una legge speciale, contraente unico. Si consente, in pratica, ad un soggetto privato di agire in regime di monopolio. E’ questo soggetto che pianifica, progetta e realizza, e ottiene di adeguare i prezzi con il dilatarsi dei tempi di esecuzione : da 400 milioni iniziali l’opera finale costerà 7 miliardi. Ovviamente il tutto  senza lo straccio di una gara. Il Consorzio riceve soldi pubblici da spalmare a destra e a manca, per superare intoppi, sfuggire ai controlli, ottenere permessi. E lo Stato, che elargisce denaro e promette meraviglie, nel frangente dove è finito? Semplice : è scomparso. Ha abdicato al suo ruolo, alle sue funzioni, lascia correre. Ci fermiamo qui, ma il racconto potrebbe continuare. E’ già abbastanza per capire che il sistema, questo sistema va rigirato come un calzino, smontato, gettato via. Prima di varare  nuove norme, si cancellino almeno quelle che hanno procurato danni.

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