Cina, altra repressione in vista della ricorrenza di Tienanmen. Spunta anche il terrorismo islamico
Come ogni anno, il regime comunista cinese ha paura dell’anniversario della strage di Tienanmen. L’avvocato e attivista per i diritti umani Pu Zhiqiang e almeno altre cinque persone sono state arrestate dalla polizia cinese in vista del 25° anniversario del massacro, che cade il 4 giugno. Ondate di arresti di dissidenti avvengono tutti gli anni in occasione delle scadenze politiche sensibili tra cui il “6/4” – in cinese il mese viene sempre indicato prima del giorno – ha un posto di primo piano. Quest’anno per la prima volta gli arresti sono avvenuti dopo una riunione di una ventina di dissidenti che hanno commemorato le vittime del massacro. Secondo alcuni osservatori si tratta di un fatto estremamente preoccupante per i governanti cinesi e per le forze di sicurezza che non sono riuscite a prevenire la commemorazione. Tra le persone che hanno partecipato alla riunione e che sono state arrestate – che in tutto sarebbero una quindicina – ci sono, secondo fonti del dissenso, la ciberattivista Liu Di (conosciuta su Internet come “topo d’ acciaio senza macchia”), gli accademici liberali Hao Jian e Xu Youyu e il dissidente cristiano Hu Shigen. Tutti sono stati accusati di «aver suscitato polemiche e creato problemi». Secondo l’attivista Hu Jia Pu e gli altri dissidenti sono stati bloccati dalla polizia domenica scorsa, qualche ora dopo la fine della riunione. Il massacro avvenne nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 su piazza Tiananmen e nelle strade vicine e rimane una ferita aperta per la società e per il mondo politico cinesi. Centinaia di persone, studenti e cittadini che cercavano di difenderli, furono uccisi dai soldati dell’Esercito di Liberazione Popolare, chiamati a intervenire dopo due mesi di serrata lotta politica tra i dirigenti favorevoli alla trattativa con gli studenti e i sostenitori della linea dura. In seguito, il Partito affermò che si era trattato di un «moto controrivoluzionario» e si è finora rifiutato di fornire il numero delle vittime e i loro nomi. Il compito è stato svolto dal gruppo spontaneo delle “madri di piazza Tiananmen” che hanno dato un nome e un cognome a oltre 200 vittime. Le “madri” chiedono inoltre che venga condotta un’inchiesta sul massacro e che i responsabili vengano puniti. Migliaia di persone si riuniscono ogni anno ad Hong Kong per ricordare le vittime e chiedere ;a fine del regime a partito unico. Nella stessa Repubblica Popolare Cinese, centinaia di messaggi che ricordano il massacro vengono diffusi attraverso Internet. Ma quello di Tienanmen non è l’unico problema con cui ha a che fare il regime: lo spettro del terrorismo islamico continua infatti a minacciare anche la Cina. Sei persone sono state ferite a colpi di coltello nei pressi di una stazione ferroviaria a Guangzhou, nel sud del Paese. L’attacco viene una settimana dopo che un’analoga azione aveva avuto luogo a Urumqi, capitale della tormentata provincia del Xinjiang, mentre era in corso la prima visita nella regione del presidente Xi Jinping. Tre persone sono state uccise e 79 ferite a Urumqi. Entrambi gli attacchi richiamano quello che è stato definito il “9/11 cinese”, cioè la strage compiuta da un commando di terroristi il primo marzo a Kunming, che uccisero 29 persone prima di essere sopraffatti dalla polizia. Testimoni hanno riferito al South China Morning Post di Hong Kong che gli assalitori erano quattro e che indossavano dei piccoli copricapo bianchi usati abitualmente dai musulmani cinesi. Uno dei terroristi è stato ferito dagli agenti accorsi sul posto ed è stato portato in ospedale. Secondo il Quotidiano del Popolo online – la versione web del giornale del Partito Comunista Cinese – gli agenti hanno fatto fuoco dopo che i terroristi avevano respinto il loro invito alla resa. Il Nanfang Daily, che viene pubblicato a Guangzhou, ha citato un testimone che ha visto uno degli assalitori acquattato sulla piazza davanti alla stazione. Il terrorista è poi scattato improvvisamente in piedi lanciandosi contro la folla con in pugno un lungo coltello. Parlando a ridosso dell’attentato di Urumqi, lo stesso Xi Jinping ha sostenuto la necessità di «misure straordinarie per distruggere i terroristi violenti». I media cinesi hanno affermato che i responsabili dell’attacco – due dei quali sono stati abbattuti dalla polizia – erano «fortemente influenzati dall’estremismo religioso». Gli uighuri sono circa nove milioni, il 40% della popolazione del Xinjiang, la regione del nordovest ricca di materie prime e situata in una posizione strategica di confine della Cina con l’Asia centrale e l’Asia meridionale. Musulmani e turcofoni, gli uighuri lamentano di essere stati lasciati ai margini dello sviluppo economico degli ultimi anni del quale avrebbero beneficiato solo gli immigrati cinesi nel territorio. Dal 2009, quando quasi 200 persone morirono a Urumqi in scontri tra uighuri e immigrati cinesi, il Xinjiang è nella morsa di uno stato d’assedio di fatto. I gruppi di esuli denunciano centinaia di arresti e decine di condanne, molte delle quali alla pena capitale.