Tra i profeti del nuovo e i custodi dell’esistente, c’è chi ora fa politica con una “fregola” sospetta
C’è chi accelera e chi frena. Chi vuole innovare e chi vuole conservare. I profeti del nuovo e i custodi dell’esistente. Ci sono quelli che vogliono il cambiamento e quelli che difendono lo status quo. A sentire Matteo Renzi tutto si gioca intorno a questo dualismo. In epoca di pensiero debole, più dei contenuti preoccupa la forma, l’involucro. E poi c’è la velocità, l’impeto di fare in fretta che soverchia la preoccupazione di far bene. Ebbene, tutta questa fregola ci appare alquanto sospetta. Non perchè non ci sia bisogno di alzare i ritmi dell’azione politica e riformatrice, dopo gli appannamenti, le inconcludenze e le tergiversazioni degli utimi anni. Tutt’altro. Nessuno però ci toglie dalla testa che questa smania del “tutto e subito”, condita da ultimatum del tipo “o si fà così, o tutti a casa“ , una sorta di ricatto permenente tra chi occupa il governo (i probi, secondo Renzi) e chi siede in Parlamento (la Casta, nella accezione che tanta fortuna ha avuto dopo i dissacranti libri di Stella e Rizzo), aiuti più di tanto ad aprire le porte a riforme serie e produttive. L’avvicinarsi delle scadenze elettorali sta giocando un ruolo importante in questa partita condotta senza riverenze e con grande rumore mediatico. Su una cosa l’ex sindaco di Firenze ha ragione: sono state consumate troppe stagioni in dibattiti sterili e inconcludenti. E’ vero. Abbiamo alle spalle montagne di carte, una sequela di commissioni, centinaia di proposte, documenti, studi, analisi, pareri. Solo a scorrere e sfogliare i volumi conservati in archivio, avremmo in questi anni potuto scrivere non una ma dieci costituzioni . Invece, siamo ancora inchiodati al bicameralismo perfetto, il capo dell’esecutivo ha poteri così limitati che non può neanche decidere di mandare a casa un ministro del suo governo, i regolamenti parlamentari sembrano fatti apposta per allungare i tempi e rendere ogni piccola modifica legislativa un percorso accidentato. La democrazia, nel suo esercizio, ha bisogno di regole, di confronto e di opportuni contrappesi. Ma da noi tutto è diventato un peso insopportabile. La legislazione si è ispessita e dilatata. Nella patria del diritto e dei codici romani, la qualità delle leggi è diventata scadente, orribile, impresentabile. Oltre che indecifrabili, le norme sono spesso anche contraddittorie. Come tali, suscettibili di applicazioni confuse e incerte. Nella difficoltà di interpretarle, a volte, non vengono neppure applicate. La riforma del Titolo V ha aggiunto confusione a confusione. Del federalismo neppure a parlarne. Doveva esaltare le autonomie regionali e territoriali, configurando un fiscalismo più in linea con le risorse e le potenzialità delle comunità locali, superare il centralismo statale e affermare un decentramento virtuoso. Niente di tutto questo. Il risultato è stato devastante. Sono aumentati i capitoli di spesa e si sono decuplicate le tasse. In alcuni settori si sono ridotti gli spazi di efficienza , mentre si alzava il livello del conflitto Stato/Regioni innanzi la Consulta. Detto questo , però, riconosciute le ragioni che fanno del cambiamento un versante decisivo per far uscire il Paese dal pantano, ci sono riflessioni e valori che meritano attenzione. Riformare il Senato, in una logica che ne differenzi ruolo e funzioni rispetto alla Camera, e diminuire sensibilmente il numero dei senatori, ha un senso. Ridurlo ad una sorta di Cnel riveduto e corretto, in chiave di rappresentanza delle Autonomie locali, con funzioni del tutto marginali e ininfluenti, provoca più di qualche dubbio. Depotenziarne la forza di legittimazione, ricorrendo ad una rappresentanza di secondo livello che priva i cittadini della scelta, può forse far risparmiare qualche risorsa, ma certo non serve nè ad arricchire il livello democratico nè tantomeno a corroborare quello legislativo. Al contrario, mantenere seicentotrenta deputati è una esagerazione . Il numero appare esorbitante. Ancora, se davvero si vogliono ridurre i costi della politica e incidere dove le sacche di inefficienza appaiono più vistose, si affondi il coltello sull’assetto regionale. Altro che nelle Province, è qui, nei gangli di un regionalismo astrusto e infingardo, vischioso e corrossivo, con i suoi scandali e le sue infinite manchevolezze, che va rintracciato il cancro da estirpare. Non si tratta , come accusa Renzi, di “benaltrismo”, ossia di quel vizio antico dietro cui si nasconde un’anima gattopardesca. Non è la litania di chi sposta altrove i confini del ragionamento. Si tratta , più semplicemente, di una preoccupazione per riforme che, al di là dei titoli di bandiera, mal si adattano alla nostra storia e alla nostra cultura. Non si inquadrano in un organico e complessivo disegno riformatare del sistema. Peggio ancora: non si adattanto a quella esigenza di modernizzazione di cui il Paese ha bisogno. Riformare la Costituzione in alcune sue parti è sicuramente opera meritoria e indispensabile. Farla dipendere da ragioni di mera riduzione dei costi della politica, pur se tale riduzione è necessaria, è sbagliato concettualmente oltre che praticamente. Si rischia di colpire nel posto sbagliato. Fateci caso, si spaccia la riforma del Senato come una grande riforma. Ma nessuno parla più di Presidenzialismo. Si affossano le province ritenendole anacronistiche e fonti di tutti i nostri guai , e nessuno che parli più della necessità di ridurre il numero delle regioni, aprendo semmai all’idea delle macroregioni, caldeggiata a suo tempo dalla Fondazione Agnelli. Infine, se c’è una cosa insopportabile, nel distillare sentenze come fa Renzi, e’ la superbia manichea di chi crede che tra il bianco e il nero ci sia solo il vuoto o, peggio, il grigio. La politica, quella vera, è fatta di cento colori e mille sfumature. Il riformatore vero è quello che esalta la policromia e rende armonioso il paesaggio istituzionale. Rompere per il solo gusto di rompere non ha mai portato buoni frutti.