Gli italiani abbandonati di Crimea: «Ricordiamo bene quando Stalin ci deportò…»

6 Mar 2014 18:23 - di Antonio Pannullo

Anche gli italiani di Crimea, la più piccola minoranza etnica della penisola contesa tra Kiev e Mosca, combattono la loro battaglia: a fianco dei russofoni, «per una maggiore e reale autonomia», e in nome della memoria, «per una riabilitazione come deportati in epoca staliniana». Sono poco più di 300, concentrati a Kerch, estremità orientale della regione, sullo stretto che collega Mar Nero e Mar d’Azov. Sono gli eredi di una lunga storia di emigrazione: dai fasti medievali delle colonie prime veneziane e poi genovesi (Caffa, Caulita, Soldaia, le odierne Feodosia, Yalta, Sudak), quando il Mar Nero divenne una sorta di ”lago genovese”, al meno noto sbarco ottocentesco di marinai, vignaioli e agricoltori in gran parte pugliesi, attratti nell’impero degli zar dalla promessa di facili guadagni e dal miraggio di fertili terre quasi vergini. Uno dei viceconsoli locali, Antonio Felice Garibaldi, fu lo zio di Giuseppe Garibaldi. «Siamo molto preoccupati da questa situazione ancora imprevedibile, speriamo in una soluzione pacifica», racconta all’Ansa la presidente dell’associazione Italiani di Crimea, Giulia Giacchetti Boico. «Devo dire che la nostra minoranza italiana non è mai stata oggetto di ostilità o minacce, casomai c’è rispetto e interesse verso la nostra cultura, la nostra lingua», assicura. E il referendum? «È l’unica strada per salvare la Crimea, dando al popolo la possibilità di scegliere il suo destino. Ma credo che la soluzione migliore sia non la secessione bensì una maggiore e reale autonomia», spiega. Se la Crimea diventasse una repubblica davvero autonoma, aggiunge, «aumenterebbero anche le speranze in una legge per la riabilitazione delle minoranze deportate, sia per ristabilire la verità storica sia per poter usufruire di alcune agevolazioni socio-economiche riservate alle vittime del comunismo». Legge che finora Kiev non ha mai varato, temendo forse i risvolti economici che comporterebbe in un Paese sempre in difficoltà finanziarie. Anche Giulia, autrice di diversi libri (La tragedia sconosciuta degli italiani di Crimea, Il genocidio dimenticato) e instancabile promotrice della cultura italiana in Crimea, è figlia di deportati: «Il primo della mia famiglia ad arrivare qui nell’Ottocento da Trani, come marinaio, fu il mio bisnonno paterno Sebastiano, mentre suo fratello si mise a fare l’agricoltore. Mia madre, che poi sposò un ucraino, fu deportata ad un anno in Kazakhstan, nel 1942».Fu l’anno delle deportazioni di tutte le minoranze etniche della Crimea, già falcidiate dalle precedenti purghe staliniane e sospettate durante la guerra di collaborazionismo con i nazisti. Viaggiarono su vagoni piombati: metà, tra cui i bambini, morirono nel viaggio. «Tutta la strada da Kerch al Kazakistan è irrigata di lacrime e di sangue dei deportati o costellata dai nostri morti, non hanno né tombe né croci», ricorda Giulia. I pochi sopravvissuti rientrarono a Kerch sotto Krusciov. E pensare che sin dal 1840 a Kerch era stata edificata l’attuale chiesa cattolica, e che nel 1915, sotto gli zar, quando gli italiani toccavano il 2% della popolazione, c’erano un parroco italiano, una scuola elementare, una biblioteca, un club, una cooperativa, mentre il giornale locale Kershenski Rabocii pubblicava in quel periodo articoli in lingua italiana. Poi in epoca staliniana iniziarono le difficoltà, e durante la collettivizzazione forzata delle campagne gli italiani furono costretti anche a creare un kolkoz, intitolato a Sacco e Vanzetti. Oggi i discendenti degli emigranti italiani, arrivati in due ondate (1820 e 1870), prevalentemente da Trani, Bisceglie, Molfetta, Bitonto, ma anche da Veneto, Campania e Liguria, hanno le stesse difficoltà economiche della popolazione locale. Si chiamano Albrizzo, Barrone, Bassi, Nenni, Binetto, Beltrandi, Evangelista, De Martino, De Pasquale, De Cilis, Croce, sono infermieri, commessi, contabili, pochi insegnanti e avvocati, nessun imprenditore. Non tutti parlano con padronanza la lingua degli avi, anche se molti recitano l’Ave Maria e il Padre nostro in perfetto italiano. Ma all’associazione Italiani di Crimea, sostenuta dall’istituto italiano di cultura di Kiev, sentono il sapore di casa, e non solo per i corsi di cucina: possono sfogliare i libri della biblioteca, seguire gratis corsi di lingua o conferenze sulla storia e la cultura del Belpaese, vedere film. Anche questo è un pezzo di storia della travagliata Crimea.

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