Orrore in Thailandia: ragazza uccisa e bruciata perché buddista

10 Feb 2014 20:02 - di Giovanni Trotta

Anche per gli standard di violenza di una guerriglia che ha causato quasi seimila morti in dieci anni, si tratta di un omicidio-rappresaglia fuori dall’ordinario: una giovane donna, presa di mira solo perché buddista e probabilmente per essere la moglie di un ufficiale di polizia, uccisa e poi bruciata davanti a passanti terrorizzati. È successo nell’estremo sud della Thailandia, dove dal 2004 è attiva una guerriglia separatista musulmana sempre più in conflitto con le autorità di Bangkok. La vittima, 28 anni, è stata uccisa con due colpi alla testa mentre camminava in un mercato all’aperto di Pattani, e poi data alle fiamme. Dalle prime ricostruzioni della polizia, gli assassini sono due uomini che si sono dileguati senza essere identificati. Hanno rivendicato il gesto lasciando sul cadavere un biglietto con scritto: «Questa è la ricompensa per i nostri tre bambini uccisi dalla vostra gente, vi uccideremo finché la vostra gente continuerà a vivere sulla nostra terra». Il riferimento è a un agguato di una settimana fa – anch’esso a opera di ignoti – in cui tre fratellini musulmani di nove, cinque e tre anni sono stati uccisi all’esterno della propria casa: i due genitori erano invece rimasti feriti. L’attacco, che ha segnato anch’esso un’escalation della violenza in una guerriglia che spesso passa in secondo piano sui media nazionali, nonostante lo stillicidio quasi quotidiano, è stato evidentemente attribuito dai ribelli alle autorità di Bangkok. Il timore è che l’omicidio inneschi una spirale di vendette reciproche. Da una parte i buddisti che nelle tre province di Pattani, Yala e Narathiwat sono ormai minoranza, dall’altra una comunità musulmana con aspirazioni che vanno dall’indipendenza a una maggiore autonomia, ma che comunque alberga un diffuso risentimento verso l’estrema centralizzazione delle autorità thailandesi. Secondo gli analisti, la guerriglia è motivata più da aspirazioni locali che da ideali religiosi. Il rancore potrebbe ora essere ancora più condiviso a causa dell’impantanarsi dei negoziati di pace, intavolati l’anno scorso tra Bangkok e il principale gruppo ribelle dell’area, un ex sultanato a maggioranza malay che fu inglobato nell’allora Siam all’inizio del Novecento. Dopo un promettente inizio, gradualmente le trattative si sono arenate di fronte alla ambiziose richieste dei separatisti e al tentennare delle autorità thailandesi, tradizionalmente refrattarie a qualsiasi concessione di maggiore autonomia locale. In teoria sono ancora aperti, ma di fatto sono arrivati a punto morto. Se già d’abitudine il resto della Thailandia guarda con scarso interesse alle turbolente e lontane province dove il conflitto non dà segni di tregua, l’attenzione è ancora minore ora che il Paese è totalmente assorbito da una crisi politica che sta spaccando la società in due campi, e che ha visto il primo arresto di uno dei leader della protesta. Servirebbe uno sforzo politico comune; ma nel dimenticatoio in cui è caduto quello spicchio di sud a maggioranza musulmana, in un Paese al 97% buddista, il rischio è che la mattanza continui.

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