Ma la Primavera araba non ha aperto le porte alla “parità di genere”

14 Gen 2014 14:44 - di Giampaolo Rossi

In Occidente “l’abito non fa il monaco”; nell’Islam, invece, “l’abito fa la donna”.  Un recente studio dell’Institute for Social Research dell’Università del Michigan, uno dei più qualificati istituti sociologici americani, conferma che il modo in cui l’opinione pubblica del Medio Oriente accetta il modo di vestire delle donne corrisponde al livello di libertà per le donne stesse. All’interno di una ricerca corposa, condotta sui cambiamenti avvenuti dopo la Primavera Araba, i ricercatori hanno dedicato un capitolo specifico al cosiddetto rapporto di genere. L’indagine è stata svolta in sette paesi musulmani (Tunisia, Egitto, Iraq, Libano, Pakistan, Arabia Saudita e Turchia) su un campione rappresentativo di uomini e donne.  Agli intervistati è stata presentata una tabella con sei immagini di donne in diversi stili d’abbigliamento ed è stato loro chiesto quale di queste donne avesse un abito «più appropriato per i luoghi pubblici». Complessivamente, per la maggioranza degli intervistati, l’hijab, il velo bianco che lascia scoperto il volto è quello più accettato. Eppure vistose differenze tra paese e paese corrispondono a diversi modi di concepire la libertà femminile: Libano (50%) e Turchia (32%) sono i paesi dove è maggiormente accettata l’immagine della donna libera di non indossare nulla. Al contrario, in Arabia Saudita il 74% delle persone vuole le donne con il burqa (11%) o con il niqab, il velo nero che lascia scoperti solo gli occhi (63%).

Complessivamente, l’indagine conferma che nei paesi islamici il ruolo della donna continua ad essere sottomesso a quello dell’uomo. Se ad esempio, la pratica della poligamia è nettamente rifiutata non solo nei paesi più liberali come Libano e Turchia ma anche in Egitto, Pakistan e Iraq (unica eccezione, l’Arabia Saudita dove il 51% degli intervistati la ritiene giusta), la parità lavorativa è ancora un miraggio: nel caso di scarsità occupazionale solo il 44% dell’opinione pubblica turca ritiene che uomini e donne abbiano pari diritto a lavorare; mentre l’86% di quella egiziana e l’85% di quella pakistana ritiene che gli uomini debbano avere priorità nel lavoro. Non solo, ma in tutti i paesi la stragrande maggioranza degli intervistati ritiene che la donna debba «sempre obbedire al marito».  Il Libano è l’unico paese in cui la maggioranza di intervistati (70%) ritiene che l’amore debba essere alla base del matrimonio; la cosiddetta “rivoluzione di Romeo e Giulietta” che per i sociologi è un indice di sviluppo di individualismo sociale. Come gli autori della ricerca spiegano, i movimenti di rivendicazione che presero forma tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 furono un’imposizione dall’alto e non una reale maturazione culturale della società. Fu, per così dire, un “femminismo di Stato” imposto dai governi laici e nazionalisti ed elaborato da intellettuali di formazione occidentalista che portò alla nascita di movimenti femministi e di legislazioni sul tema. Nella Turchia di Ataturk, nel Libano filo-francese, così come nell’Iran dei tempi dello Scià o nei regimi laici in Tunisia ed Egitto, furono importati modelli di vita occidentali anche sul ruolo sociale della donna. Ma dalla metà del ventesimo secolo e poi ora con la Primavera Araba, la nascita dell’integralismo islamico ha rifiutato di fatto la parità di genere; ne è una prova l’Egitto, un tempo paese liberale e laico e oggi con un indice di uguaglianza di genere inferiore all’Iraq e al Pakistan.

La disuguaglianza tra uomo e donna in famiglia, nel lavoro, nella società è pratica comune nelle culture islamiche, anche quelle più evolute secondo i criteri occidentali; ed è un errore riferirsi ai modelli sociali dei paesi islamici senza tener conto che tradizione e religione sono parte strutturale di quelle culture e spesso elementi di equilibrio e coesione. Bisogna rendersene conto quando dalle nostre parti si predica lo ius soli, l’apertura incondizionata all’immigrazione, l’abbattimento di ogni filtro di integrazione per l’Islam nelle nostre società. E quando sentiamo il nostro ministro Kyenge (che l’autorevole Foreign Policy ha definito una “illustre pensatrice”), dire che il burqa è come il velo delle suore cattoliche, bisogna armarsi di santa pazienza e accettare il fatto che la “pensatrice” non ha pensato alla differenza che c’è tra la sottomissione religiosa a Dio e la sottomissione sociale all’uomo; un problema di non poco conto.

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