Forse Renzi non lo sa: metà degli italiani rivogliono le preferenze. Preferiscono il “rischio corruzione” che non scegliere

24 Gen 2014 10:48 - di Romana Fabiani

Nel nome della governabilità, figura mitologica nell’Italia del dopoguerra, politici di ogni estrazione si sono esercitati nella stesura delle più complicate e indigeribili leggi elettorali, quasi sempre costruite su misura e sull’onda del momento. Nel giorno in cui parte in commissione il dibattito sulla proposta Renzi si infittisce la polemica sul ritorno alle preferenze non previste dall’Italicum, frutto dell’accordo del segretario Pd con Berlusconi. La possibilità degli elettori di scegliere il proprio candidato al momento è esclusa:  se tra i partiti i sostenitori del ritorno alla preferenza nel nome della volontà popolare contro i “nominati” non sono la maggioranza (in testa o Fratelli d’Italia, ma anche l’Udc e i Cinquestelle) nell’opinione pubblica è quasi un plebiscito per le preferenze. L’ultimo sondaggio di Euromedia Research ha rilevato che il 51 per cento degli italiani chiede espressamente un ritorno alla preferenza, ma il tetto raggiunge quasi l’80 per cento con il voto aggregato. Insomma la tesi del rischio corruzione e clientelismo non tiene più, sembra che gli elettori che in questi anni ne hanno viste tante oggi preferiscano rischiare la delusione per aver votato un candidato indegno che vedersi defraudati della scelta.

Sono gli stessi cittadini che nel ’93 (confermando il referendum del 091) votarono in massa per l’abolizione delle preferenze e del sistema proporzionale. Sono passati vent’anni ma sembra un secolo: all’epoca era fortissima la volontà di cambiare segno, di azzerare la prima Repubblica e il suo sistema di regole consolidate. L’ondata maggioritaria, guidata da Mariotto Segni, rappresentò il grimaldello per uscire dal guado e tutti i partiti si accodarono più o meno convinti. Non si contano le piroette di molti illustri esponenti politici, forse solo il Msi dette vita a un sincero dibattito interno con una parte, quella rappresentata da Pino Rauti, fieramente contraria al maggioritario (i militanti esibivano vistose spillette gialle con la scritta No), e quella più “moderna” che si unì ai sentimenti prevalenti. Anche nel Pci le divisioni erano plateali con Achille Occhetto a sostenere disperatamente il “nuovo” (mentre Craxi invitò a disertare il referendum) e Massimo D’Alema molto distante.

Per molti anni nominare il proporzionale significava parteggiare per i corrotti e i parrucconi del passato, le preferenze erano sinonimo di malapolitica, oggi è molto diverso: gli italiani si sentono traditi dalla mancata rivoluzione definitivamente archiviata con il porcellum, che se non è tutto da buttare ha consentito e regolato l’ingresso in Parlamento di nominati dalle segreterie. Dal referendum in poi  abbiamo visto un po’ di tutto: sistemi complicati nobilitati dal latinorum: il Mattarellum, con il sistema dei collegi che portò deputati siciliani ad essere eletti nel collegio del Piemonte e viceversa,  fino al sistema attuale che lo stesso padre Calderoli definì  una porcata. Oggi la questione è ancora aperta, Renzi (e lo stesso Berlusconi da sempre contrario alle preferenze) sa bene che aver lasciato inalterata «la vergogna» delle liste bloccate non piace alla maggioranza degli italiani, tanto che incolpa il Cavaliere. Il Pd mastica amaro (mezzo partito si è ribellato alla legge elettorale targata Renzi e lo stesso Letta non ha fatto mistero di essere per il sistema delle preferenze), Alfano si è unito con qualche mal di pancia al via libera alla proposta Renzi ma non vuole rinunciare alle preferenze (gli elettori devono conoscere il citofono di casa del loro eletto). L’ex ministro Rino Formica dice che è solo «questione di potere, con le liste bloccate i capi possono eliminare i nemici interni».

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