Altro che Siria, è l’Iraq la nuova frontiera qaedista: Falluja conquistata dagli insorti

4 Gen 2014 18:06 - di Antonio Pannullo

Gli 80 morti in poche ore (e i centomila degli ultimi anni) e il fatto che Falluja, la “città delle 200 moschee”, sia stata conquistata dai qaedisti, impongono una riflessione sull’efficacia delle strategie dell’Occidente nelle nazioni considerate a rischio umanitario. Ormai, ad anni di distanza, si può trarre un bilancio sugli esiti delle “esportazioni di democrazia” (con le armi) in nazioni come l’Afghanistan, il Kosovo, il Congo, la Libia, l’Iraq e altri. Questi Paesi sono tutt’altro che pacificati, in particolare per l’Iraq gli indicatori economici (per non parlare di quelli sociali) sono peggiori di quelli di prima dell’invasione. Significa che quando c’era Saddam Hussein si stava meglio. Non solo: la Cia ha ammesso che il governo di Baghdad non ebbe mai contatti né diretti né indiretti con i qaedisti, ma non ci voleva la Cia per scoprirlo, bastava constatare che il vice presidente di Saddam era un cristiano, Tareq Aziz. Oggi inoltre tutti sappiamo che i famosi arsenali chimici e nucleari di Saddam, per svuotare i quali si dette il via alla guerra, non furono mai trovati, semplicemente perché non eistevano. E allora? Allora non è azzardato pensare che il fatto che in Iraq si trovino un terzo delle riserve mondiali di greggio non sia estraneo all’esportazione di democrazia americana. Tornando a Falluja, già teatro durante l’invasione occidentale di una sanguinosa battaglia – era la roccaforte degli insorti sunniti -, è stata in queste ore conquistata da non meglio precisati qaedisti, come rende noto una fonte della sicurezza della provincia di Anbar: «Falluja è sotto il controllo dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante», ha detto. Falluja si trova a soli 70 chilometri della capitale Baghdad, e non è insolito pensare che il debole governo centrale (il premierato di al Maliki è in regime di prorogatio) possa fare poco o nulla per strappare la città all’egemonia degli insorti. Insomma, a oltre dieci anni dalla cosiddetta Seconda Guerra del Golfo i problemi dell’Iraq sono aumentati e il Paese asiatico, anziché riconquistare la propria sovranità, rimane sempre un protettorato americano, e per giunta squassato e insanguinato da bombe, attentati, omicidi, sparatorie quotidiane. Nel 2003 circa una trentina di Paese occidentali sferrarono l’attacco a questo Stato sovrano, riducendolo a un cumulo di macerie: per restare a Falluja, durante la repressione dell’insurrezione furono distrutte una sessantina di moschee e circa il 65 per cento degli edifici. Le perdite umane, mai quantificate, dovettero essere altissime, anche perché a quanto sembra gli “alleati” utilizzarono anche armi al fosforo. In definitiva, non si riesce a capire che le categorie morali, sociali e politiche che valgono in Occidente non valgono in altri luoghi del pianeta, ma soprattutto non si riesce a uscire dall’ipocrisia di contrabbandare per pacificazione e democrazia quella che si è rivelata una pura e semplice conquista militare finalizzata alle risorse naturali del Paese in questione, strategia già utilizzata in passato, se solo si pensa al Congo degli anni Sessanta.

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