Non bastano più le parole ad esorcizzare l’avanzata dei nuovi Masaniello, la politica ne prenda atto

13 Dic 2013 16:04 - di Silvano Moffa

Bombe carta all’Università, cariche della polizia, i Forconi che bloccano la frontiera con la Francia a Ventimiglia, i presidi , i volantinaggi , le proteste che dilagano nelle piazze, al Nord come al Sud : l’onda di ribellione che sta scuotendo l’Italia non accenna a diminuire. È un’ira “cieca e contagiosa”. Non va confusa con l’indignazione, spiega dalle pagine del Corriere il filosofo Remo Bodei, che al tema ha dedicato studi e pubblicato un saggio edito qualche anno fa dal Mulino. L’ira è “di pancia e nasce dalla percezione di aver subito una violazione dei diritti o un’umiliazione, l’indignazione si lega a un senso di giustizia più razionale e più nobile”. La prima, si manifesta come voluttà distruttrice nei confronti di cose e persone, è generica e indifferenziata. La seconda, nasce da un preciso motivo, ha un perimetro di riferimento che ne connota la portata, per esempio la crisi finanziaria del 2008, che dette vita al movimento degli  Indignatos contro banchieri e cattedrali finanziarie.  Distinzioni filosofiche a parte, una cosa i due sentimenti hanno in comune: non possono durare all’infinito. «Non si può restare irati o indignati per lungo tempo», sottolinea Bodei. Il fatto è che nessuno è in grado al momento di dire come andrà a finire. Come nessuno è stato finora in grado di arrestare il populismo del “fare piazza pulita”, del “tutti a casa”, del “rottamiamo tutto e tutti”, come se bastasse questa sorta di grido catartico per liberarci da tutti i nostri guai. Nella confusione dei linguaggi, al netto delle colorazioni ideologiche che ne danno i media, frettolosi e poco inclini ad analizzare il fenomeno,  imbalsamati come sono in vecchie letture e  superate categorie interpretative, al di là  di una certa ottusità interpretativa, appunto, desta sconcerto, ancora una volta, la scarsa consapevolezza che traspare dalle deboli risposte del governo e dalle equivoche voci che si levano dai palazzi della politica. Si sapeva che la crisi devastante che da cinque anni  ci perseguita ha sfibrato il Paese, lo ha messo in ginocchio, ha impoverito le famiglie, ha letteralmente portato alla fame una fetta impressionante di popolazione e costretto sul lastrico piccoli e medi imprenditori, artigiani, commercianti. Si sapeva che molti giovani (e non solo loro)  abbandonano la loro terra e fuggono all’estero alla disperata ricerca di uno straccio di lavoro che non trovano più   a casa loro. Si sapeva che la pressione fiscale, in tutte le sue forme e nei mille balzelli che ti succhiano il sangue come sanguisughe, avrebbe reso esangue il corpo martoriato del contribuente onesto. Un contribuente che, per essere rispettoso con il fisco, si è ulteriormente indebitato, mentre l’evasione raggiunge l’iperbolica cifra di 120 miliardi. Centoventi miliardi, mica  una cifra da poco! Il Paese è a pezzi, indolente e rassegnato, senza più riferimenti e privo di rappresentanza, perché quella che c’è non lo soddisfa più. Ed è qui, su questo punto che la classe politica, maggioranza e minoranze, dovrebbe soffermarsi a riflettere. Sarà pure un ribellismo fine a se stesso, senza costrutto e virulento nella sua smania distruttrice, un coacervo di impulsi sfrenati, odi e rancori, frutto di un insieme di frustrazione e impotenza,  ma non sarà facile incanalarlo in una protesta civile e costruttiva se prima non si è in grado di ascoltare chi grida e si lacera le vesti, e capire nel profondo il  disagio da cui muove; se non si riesce a distinguere  chi manifesta perché  è disperato e non gli resta altro da fare da  chi, invece, su quella sofferenza allunga gli artigli dello sfruttamento  per altri fini ed altri scopi. Confondere le due cose è pericoloso oltre che dannoso. Come scrivemmo giorni fa a commento della protesta torinese, quando  la piazza ricorre ai “Masaniello”  – e tali ci sembrano essere i  capipopolo arruffoni che spuntano qua e là come funghi, inseguiti dalle telecamere – , la deriva di un attacco indiscriminato nei confronti delle istituzioni è dietro l’angolo. Allora, non bastano più le parole ad esorcizzarla. Ci vogliono i fatti, fatti concreti. Risposte capaci di rianimare il circuito della speranza. Si ha l’impressione che finanche le riforme  non siano più sufficienti a  sedare gli animi ribelli. Anche se le riforme, come sappiamo,  sono indispensabili come non mai. La verità è che il  troppo tempo perduto  le ha private di credito e  di valore salvifico, ammesso che l’abbiano mai avuto. Ci vorrebbe qualcosa di più immediato e straordinario : una sorta di Piano Marshall che porti i segni, i  tratti di un nuovo stato sociale, una serie di provvedimenti  mirati che ridiano ossigeno all’economia e aiutino a superare diseguaglianze, vecchie e nuove. E poi, con questo Piano nelle mani, bisognerebbe armarsi di coraggio, andare in Europa e affermare senza timore un semplice , sacrosanto principio: i popoli non possono morire a causa dello spread  e neppure per meri calcoli di ragioneria, elaborati negli alambicchi tecnocratici di Bruxelles. Ci lascino respirare, insomma. Dopo aver rinunciato a significative porzioni di sovranità, e aver lasciato campo libero alla più furiosa demagogia dell’antipolitica,  il fuoco della disperazione rischia ora di bruciare le fragili mura della casa. Che senso ha restarsene inerti  di fronte al rogo?

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