Renzi e Cuperlo, prigionieri di slogan e luoghi comuni, disegnano un Pd che fatica a trovare la rotta
La Convenzione del Pd, in vista delle primarie dell’8 dicembre, ha regalato alla platea soltanto qualche battuta ad effetto. Nulla di più. Ha fatto più notizia l’assenza dei big di partito. La vecchia nomenclatura dei Bersani, D’Alema, Bindi, Fioroni, Veltroni ha disertato l’appuntamento rendendo ancor più netta la cesura col nuovo che avanza, anche in termini generazionali. Sia pure con motivazioni singolarmente diverse, quell’assenza, nel complesso, ha offerto l’immagine di un partito che fatica a trovare una rotta, dopo aver rinunciato a rammendare la tela sdrucita da ripetuti insuccessi elettorali e da un conflitto intestino portato all’esasperazione dalla sfida lanciata dal rottamatore di Firenze. Si sapeva che le posizioni di Renzi e di Cuperlo sono abbastanza distinte. Si tratta di due idee diverse del partito e del futuro. Il primo cerca di scimmiottare Blair, pescando nel repertorio del laburista più liberal della storia anglosassone. Il secondo fa leva sull’orgoglio di una sinistra che non muore nel cuore dello zoccolo duro del vecchio Pci-Pds. Entrambi, però, sembrano prigionieri di un cliché, di uno standard preconfezionato, e faticano a sganciarsi dai luoghi comuni per indicare un progetto che poggi su idee fortemente innovative e contenuti altrettanto incisivi. Nel vuoto della proposizione, si gioca a spiazzare il concorrente. Cuperlo invoca una sinistra che non sia “il volto buono della destra”, e Renzi rintuzza ricordando qual è il “volto peggiore della sinistra”, ossia quello che “non ha risolto il conflitto di interessi ed ha mandato a casa i suoi leader”. Il triestino sfoglia l’album dei “no” ideologici che da sempre hanno caratterizzato la sinistra: dal rifiuto di privatizzare Rai e ferrovie, all’articolo 18 e alla flessibilità del mercato del lavoro. Il fiorentino, rivendica il ruolo dei sindaci e contesta al partito di non averli tenuti nel debito conto. Insomma, più o meno le cose che già si conoscevano. Compresa la posizione di entrambi sul governo. E qui viene il bello. Nessuno dei due si sbilancia più di tanto. E come potrebbero? Lì a due passi li scruta Franceschini, l’unico presente dei big del vecchio corso, mandato da Letta in rappresentanza della compagine governativa. Renzi, in verità, armeggia in ambiguità, ostentando un appoggio di facciata all’esecutivo senza, però, esimersi dall’inviare un messaggio ai naviganti dall’acre sapore di ultimo avviso. Ora il governo faccia quel che noi (i renziani) pensiamo, evitando di trasformarsi nel “passatempo del semestre europeo”: è il succo del ragionamento. Metafore a parte, il vero nodo sta proprio qui, nell’atteggiamento che Renzi avrà nei confronti di Letta, il giorno successivo alla sua più che probabile incoronazione di segretario del Pd. Ne vedremo delle belle. Il Sindaco di Firenze sa bene che procrastinare oltre misura la durata del governo non gioca a suo favore. Ma sa anche che le sue ambizioni di premier rischiano di impattare sul muro della resistenza opposta dall’apparato assente alla Convenzione oppure di essere logorate dalla non facile amministrazione di un partito diviso su tutto. In fondo, ha ragione Cacciari nel dire che il Pd avrebbe dovuto dividersi, separando le due anime in conflitto, che sono sempre quelle che diedero vita all’unione, tra un’area proveniente dalla democrazia cristiana e l’altra erede della sinistra ex-comunista. Non aver avuto il coraggio di farlo a suo tempo ha bloccato la sinistra nel suo complesso. Ora è troppo tardi. Al di là della ambizioni di Renzi, delle sue frasi ad effetto e della mancanza di un Progetto chiaro e convincente di cambiamento del Paese, il filosofo-politico vede all’orizzonte uno squilibrio competitivo con il centrodestra. La scissione di Alfano e la riesumazione di Forza Italia, bene o male, allargano l’offerta politica sul versante di destra, la rende più articolata. La sinistra, invece, appare anchilosata , chiusa in uno spazio definito. Peraltro, anche se vanno presi con le pinze, i sondaggi sembrano rafforzare questa analisi. Certo, è ancora troppo presto per riscontri di opinione più attendibili, visto che siamo appena all’inizio della nuova fase, ma è indubbio che Renzi stia perdendo appeal fuori dalle mura di casa. L’aver corretto il tiro per scavare consensi tra gli iscritti, ne ha alterato il profilo e accentuato la ambiguità. D’Alema, con immagine colorita, lo ha paragonato a Gian Burrasca, l’indomito monello frutto della fantasia di Luigi Bertelli. Che abbia ragione, il sottile e perfido baffino ? Chissà. Una cosa è certa: di populismi di basso conio è ormai piena la dispensa della politica italiana. Ha ragione Cacciari: Renzi vincerà pure, il passaggio di consegne generazionale sarà pure ormai ineluttabile, ma il Pd è ormai fuori tempo massimo per ampliare lo spettro di una offerta politica capace di conquistare la maggioranza nel Paese. Dove la maggioranza, ovviamente, non sia soltanto numerica, la somma di opzioni tra loro difficilmente conciliabili, bensì politica. Ossia capace di costruire un profilo riformatore, coerente e duraturo, di una sinistra simile alle socialdemocrazie europee. Sorge spontaneo un interrogativo che inquieta fortemente la sinistra: vuoi vedere che la foga “pigliatutto” del Sindaco di Firenze, dopo aver alimentato speranze, finirà con il far naufragare anche il sogno ?