Nel caos del Pd e del Pdl muore la coda avvelenata della Prima Repubblica
Le convulsioni in atto nel Pdl e nel Pd, la crescita parassitaria del M5S e l’incapacità di trovare un punto di raccordo in merito alla sorte del governo segnalano una crisi del sistema dei partiti che non ha precedenti nella pur turbolenta e drammatica storia della politica nazionale. Quel che più impressiona in questa vicenda è l’impossibilità di trovare un elemento di razionalità in quel che quotidianamente si presenta sotto forma di polemica all’interno della strana maggioranza o delle stesse forze che contribuiscono a formarla.
Ha provato Cicchitto a cercare di riafferrare il bandolo della matassa ricordando ai suoi che l’alleanza di governo è nata con la consapevolezza che la ragione sociale del Pd era ed è l’antiberlusconismo. Allo stesso modo, è il caso di ricordare ad Epifani e compagni che hanno sottoscritto un accordo politico con il Cavaliere ben consci delle sue pendenze giudiziarie. Il fatto che oggi Pd e Pdl si dimenino sul tema della decadenza di Berlusconi da senatore – il primo atteggiandosi a boia, il secondo a marziano – è solo la conferma che un dossier così dirimente per il prosieguo del governo e della legislatura è stato trattato con supremo dilettantismo.
Il biennio ’92-93 segnò la fine dell’assetto ciellenista uscito dalla Resistenza e all’epoca la crisi fu addebitata all’invasività dei partiti in tutti i gangli delle istituzioni, banche ed industrie comprese. Oggi il vuoto politico è invece imputato all’assenza dei partiti ed alla loro sostituzione con un leaderismo esasperato, utile a trionfare nelle competizioni elettorali ma risultato del tutto inadeguato a costruire stabilità e qualità nell’azione di governo. L’attualità politica ne è una conferma. In altri tempi la vicenda della decadenza di un leader dal Parlamento sarebbe stata toccata con ben altro tatto. Innanzitutto, non sarebbe uscita dal perimetro della maggioranza in base all’assunto: o c’è un voto comune o non c’è più il governo. È facile ipotizzare che con un’impostazione del genere il ricorso alla Consulta si sarebbe imposto come una sintesi assai probabile. Invece la questione Berlusconi è stata inspiegabilmente “privatizzata”. Prima dal diretto interessato, che più volte ha pubblicamente separato il destino dell’esecutivo da quello suo personale, poi dal Pdl che ha invocato una soluzione che garantisse una non meglio agibilità politica al proprio leader ed infine da quei drittoni del Pd che hanno danzato sulla condanna della Cassazione con la grazia di un pachiderma. Il risultato è la guerra di tutti contro tutti con il paradosso che entro un paio di mesi sarà la Cassazione – e non la legge Severino – a suonare il gong dell’ultimo round e ad interdire l’ex-premier.
C’è, però, a guardar bene un’analogia tra la stagione del “manipulitismo” e del berlusconismo: entrambe soccombono sotto i colpi della magistratura. Nel primo caso, attraverso l’abbattimento (selettivo) dei partiti, cioè i pilastri del sistema politico; nel secondo, attraverso l’espulsione per via giudiziaria del leader intorno al quale e contro il quale si è realizzato il primitivo bipolarismo italiano. In questo senso, gli ultimi vent’anni, più che la tanto attesa seconda Repubblica, hanno rappresentato la coda avvelenata della prima. E questo rende l’esito della guerra in corso decisivo per poter continuare ad annoverare l’Italia tra le democrazie occidentali.