L’8 settembre “inedito”: esce dalle nebbie Dick Mallaby, la spia inglese che fece da tramite tra gli alleati e Badoglio

7 Nov 2013 17:28 - di Guglielmo Federici

Dick Mallaby è un nome poco noto ai più, agente segreto del SOE (Special Operations Executive), personalità passata di striscio nella narrazione storiografica di quel drammatico periodo che immediatamente precede, accompagna e segue l’armistizio dell’8 settembre 1943. Ci ha pensato Gianluca Berneschi, che di professione fa l’avvocato ma ha un grande passione per la ricerca storica (applicata soprattutto alle pagine “strappate” di essa) a restituisci i contorni netti di questo 007 che giocò un ruolo decisivo «in quell’ammasso di misteri, di equivoci, di ambiguità che segnarono quel tragico avvenimento, fino a trasformarlo in una data simbolica largamente discussa, dalla quale far derivare “la fine”  della nazione», scrive Francesco Perfetti nell’introduzione al volume,  L’inglese che viaggiò con il Re e Badoglio. La missione dell’agente speciale Dick Mallaby (Libreria Editrice Goriziana). Una vicenda avvincente, da spy story se non ci fossero di mezzo i destini di un’Italia a rotoli e le ripercussioni che l’8 settembre ha avuto ed ha nel nostro Dna di popolo dall’identità “debole”. La ricerca del Berneschi ha un punto di arrivo: fu proprio Dick Mallaby a trasmettere l’ordune del “tutti a casa”. Fu lui che trasmise le comunicazioni tra la base alleata di Algeri e Roma. E pensare che nella maggioranza delle opere dedicate a questo capitolo  Mallaby fa solo capolino come quella di un inglese, poliglotta e di bell’aspetto, che venne visto sbarcare, nel pomeriggio del 10 settembre 1943 nel porto di Brindisi dalla nave corvetta Baionetta che – recando a bordo Vittorio Emanuele III e Badoglio insieme a poche altre persone della famiglia e del seguito reale, dei militari e del governo – vi era giunta scortata dalla gemella Scimitarra e dall’incrociatore Scipione l’Africano. La presenza “irrituale” di Mallaby non era evidentemente così secondaria e ha spinto Barneschi a interrogarsi sui motivi che ne giustificavano il trovarsi in compagnia del Re e del capo del governo dopo l’abbandono di Roma all’indomani della proclamazione dell’armistizio. Compulsando archivi italiani e stranieri, l’autore ha trovato tutte le risposte.

Il volume per la prima volta ricostruisce la biografia di Dick Mallaby, agente operativo inglese, che si trovò a diventare una pedina fondamentale nei rapporti fra il governo Badoglio e gli alleati. Catturato dagli italiani dopo essere stato paracadutato dagli inglesi il 14 agosto 1943 nel lago di Como  per svolgere attività di intelligence, l’agente inglese evitò la sorte riservate alle spie nemiche colte in flagrante – la fucilazione – perché proprio la sua cattura si rivelò funzionale alle trattative che l’Italia, con la missione affidata al generale Castellano, stava portando avanti con gli anglo-americani per l’armistizio. Castellano e il diplomatico Franco Montanari avevano bisogno di un modo sicuro e criptato di comunicare con gli angloamericani. Qualcuno nell’entourage del generale Kenneth Strong disse che bastava consegnare agli italiani una delle loro radio per comunicazioni segrete. Ma chi sarebbe stato capace di usarla? C’era l’agente Mallaby che, ovviamente con il consenso inglese, diventò il tramite dei rapporti e delle trattative fra il Comando Supremo italiano e il Comando Alleato del Mediterraneo ad Algeri. Dopo la guerra, Badoglio e i generali italiani hanno sempre sostenuto di esser stati presi alla sprovvista dalla volontà angloamericana di accelerare i tempi. Eisenhower e i suoi hanno sempre sostenuto che il coordinamento disastroso sia tutto dipeso dai tentennamenti degli italiani. Una serie di messaggi provano chiaramente che gli italiani nicchiarono intenzionalmente sulla cruciale questione di far sbarcare paracadutisti alleati negli aeroporti attorno a Roma. Il 7 settembre, a esempio, il messaggio cifrato numero 9 degli angloamericani parla di «Estrema imminenza delle operazioni». E gli italiani invece stavano ancora prendendo tempo. E quando alle 0,15 dell’8 settembre giunse il messaggio degli alleati che recitava: «Il comandante in capo… chiede che l’ultimo paragrafo del Proclama sia cambiato e “conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare”…» avrebbe dovuto essere chiaro a tutti che “Ike” non aveva alcuna intenzione di tergiversare.

 

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