In carcere 14 mesi per l’omicidio di Basile: era innocente, chiede un maxi-risarcimento

23 Nov 2013 20:58 - di Redazione

Oltre 500 mila euro come ristoro per l’ingiusta detenzione. È il risarcimento chiesto alla giustizia italiana da Vittorio Colitti il giovane 23enne di Ugento che è rimasto in carcere per quattordici mesi con l’accusa di avere ucciso cinque anni fa in concorso con suo nonno, il consigliere comunale dell’Italia dei Valori Peppino Basile. Basile fu assassinato a coltellate la notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008 ad Ugento, davanti alla sua abitazione. Il giovane, che all’epoca era minorenne, è stato assolto con formula piena e ora che la sentenza è diventata definitiva, ha chiesto il conto per la detenzione subita ingiustamente.  «L’auspicio – commenta il legale del giovane, avvocato Francesca Conte – é che il risarcimento possa in qualche maniera lenire il dolore e le pene subite da lui e dai suoi familiari». «Si è trattato di un clamoroso errore giudiziario – aggiunge il legale – che ha lasciato una ferita difficilmente sanabile nel mio assistito con un danno biologico residuo attestato pari al 35% con gravi ripercussioni anche sull’aspetto economico della famiglia». È ancora in corso, invece, il processo a carico del nonno del giovane, Vittorio Colitti senior. Secondo l’accusa, alla base del delitto vi sarebbero stati conflitti di vicinato: nonno e nipote furono indicati come colpevoli dalla testimonianza di una bambina di 5 anni, risultata poi inattendibile. «Ho visto due signori che stavano dando le botte ad un signore. Uno che lo teneva fermo. L’altro che gli dava le botte con il coltello». Con queste parole la bimba aveva raccontato che cosa vide quella notte dalla finestra di casa. Così lo ha descritto e poi lo ha disegnato, convincendo della sua versione il pm Simona Filoni, della Procura per i minorenni. La versione dei fatti della baby testimone è risultata poi inattendibile. Sul delitto l’allora leader dell’Italia dei Valori parlò di un omicidio commesso dal “sistema”. Si ipotizzò una rappresaglia di clan locali che avevano interessi nello smaltimento di rifiuti pubblici. Resta, per ora, l’ennesimo caso di malagiustizia. Con una persona finita in carcere in attesa di giudizio per oltre un anno, «assolta per non avere commesso il fatto».

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