Fini tra autocritica e vittimismo: solo ora si accorgono del metodo Boffo, ma con il terzo polo ho fatto un errore

12 Nov 2013 11:25 - di Gloria Sabatini

Bilanci, autocritica e soddisfazioni postume. In un lungo colloquio con Ugo Magri su La Stampa Gianfranco Fini, tornato sulla scena con il libro il Ventennio dopo un anno sabbatico, si prende qualche rivincita. «Il tempo è galantuomo – dice a proposito dei tormenti del Pdl  –  e i nodi vengono al pettine. Parla di macchina del fango usata contro di lui, di metodi intimidatori che, «chi aveva occhi per vedere avrebbe dovuto denunciare e non lo ha fatto», spara a zero sull’alleato di sempre che anche in queste ore conferma la sua personalità incompatibile con opinioni diverse dalla sua. «Tutta la filosofia berlusconiana si riassume nella concezione aziendale, padronale, proprietaria», spiega confermando l’antica sofferenza del numero due che per anni ha tentato di smarcarsi dal capo. Un ex capo che non è finito perché – dice – controlla ancora i due terzi del partito. Ammette gli errori commessi, errori non da poco al netto dello scandalo di Montecarlo che lo ha travolto rosicchiando la popolarità e l’appeal di cui ancora godeva dopo l’uscita – o la cacciata – dal Pdl nella drammatica direzione del “Che fai mi cacci?”. Dall’8 per cento nei sondaggi dopo il “il coraggio di dire di no” allo 0,4 per cento delle politiche. Uno per tutti essersi buttato nelle braccia di Monti e di Casini per un’operazione dal respiro cortissimo. «Non ho difficoltà ad ammetterlo – dice Fini – il disegno era viziato all’origine, perché il terzo polo che ci riproponevamo di fare esisteva già, lo rappresentava Grillo e di questo non ci eravamo accorti». Una “svista” che ha prodotto il risultato deludente di Futuro e Libertà senza aver arato il terreno tra i suoi dopo aver accettato la fusione nel Pdl, maldigerita da colonnelli e militanti tanto più dopo il giudizio negativo (“siamo alle comiche finali”) espresso a caldo sull’operazione-predellino. Forse se avesse preso un’altra strada – magari quella della federazione – le cose sarebbero andate diversamente, ma i tempi in politica sono tutto (insieme alle idee).

L’ex leader di An, che continua a smentire qualsiasi prossimo impegno politico in prima persona, però preferisce indugiare sull’indignazione per il metodo Boffo, i dossieraggi e la vita privata sbattuta in prima pagina. Una persecuzione che ancora brucia e che adesso lambisce le colombe berlusconiane che temono le ritorsioni del Cavaliere e «scoprono l’acqua calda». Per Alfano prova una sorta di affinità emotiva, «capisco la sua angoscia, lui e gli altri ministri sono stretti tra l’interesse del Paese e il loro rapporto con Berlusconi, al quale diversamente da me loro devono proprio tutto, mai sarebbero arrivati in Parlamento e men che meno al governo senza il Cavaliere». Di Angelino, in un’intervista all’Unità, ha ricordato volentieri il passato «non di destra» giudicando «molto interessante» il suo riferimento al Ppe. Prove tecniche di alleanza? Non una parola sullo strappo laicista, letto frettolosamente come una svolta a sinistra, che gli rimprovera da sempre lo zoccolo duro della destra fino a considerarlo un traditore, né sulle scelte politiche (a partire dalla mozione di sfiducia a Berlusconi) che lo hanno portato fuori dal Parlamento e hanno fatto naufragare l’alternativa futurista al partito “monarchico” del Cavaliere. E, in definitiva, sulla diaspora della destra oggi divisa in mille rivoli Fini sospende il giudizio. Non si candiderà alle europee, non fonderà un nuovo partito – assicura – ma non starà a guardare. Per ora lavora a testa bassa alla Fondazione LiberaDestra. Poi si vedrà.

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