Le larghe intese “democristiane” sui conti pubblici ci riportano ai tempi del divino Giulio

16 Ott 2013 17:57 - di Oreste Martino

La manovra del duo Letta-Alfano è la prova provata della tentazione di trasformare le larghe intese in neocentrismo, di cui i due sono esponenti sia per origine democristiana sia  per rappresentanza delle anime moderate di Pd e Pdl.

A leggere bene come è stata stilata la legge di stabilità si torna subito con la mente alla prima Repubblica, alle leggi finanziarie di andreottiana memoria che spostavano le poste di bilancio senza toccare nulla di sostanziale. D’altronde se l’insegnamento del divino Giulio recita che “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia” il duo di Palazzo Chigi non poteva far altro che scegliere la strada del non decidere, del maquillage contabile che cambia i numeri formali e non tocca quelli sostanziali.

Niente tagli alla spesa pubblica di oltre 800 miliardi di euro all’anno, niente ritorno dell’Iva al 21%, niente aiuto alla casa, per la quale torna l’Imu sotto mentite spoglie al costo medio annuo di 366 euro per famiglia. Niente aiuti seri a famiglie e imprese, destinatarie di misure triennali che spalmate “arricchiranno” le fasce deboli di ben 100 euro all’anno (che al netto delle tasse sono circa 5 euro al mese). Niente di niente, insomma, soltanto la tenuta della linea di galleggiamento del governo, con lo stesso principio usato per il relitto della Concordia, consapevoli che prima serve galleggiare e poi decidere dove si è diretti.

L’italiano medio ha quindi ricevuto una piccola mancia in busta paga, che poi pagherà salata con altre voci. I bolli sui Bot con cui gestiscono i risparmi familiari sono aumentati, se lasciano il lavoro i loro soldi investiti nella liquidazione non gli saranno restituiti in un unica soluzione, ma a rate. E così con altre misure che tolgono più dei cinque euro che vengono dati con la scusa che si stanno abbassando le tasse. A creare problemi ci sarà anche il blocco della indicizzazione delle pensioni superiori a tremila euro al mese. Chi ha versato contributi per avere una pensione netta di 1800 euro al mese non vedrà questa cifra agganciata al costo della vita e anno dopo anno diventerà più povero, perdendo potere d’acquisto.

A far cassa secondo Palazzo Chigi ci saranno un paio di misure che sono in realtà solo degli artifici contabili. La vendita del patrimonio immobiliare pubblico per 500 milioni di euro è infatti una falsa vendita, perché a comprare sarà la Cassa depositi e prestiti. Un ente dello Stato, quindi, paga 500 milioni allo stato per comprare degli immobili dello Stato. È come se un padre di famiglia che ha bisogno di soldi mette in bilancio 20.000 euro dicendo che vende la macchina alla moglie. I soldi escono ed entrano in famiglia e la macchina resta in famiglia. Lo stesso vale per il trucco contabile con cui si recuperano 200 milioni di euro rivalutando le partecipazioni dello Stato, operazione fatta sulla carta ma senza un reale controvalore in termini di ricchezza.

Spiegata così la manovra sembra da buttare, inutile per tutti. Invece, se si scava, si scopre che c’è chi ne trae vantaggio. I primi sono proprio Letta e Alfano, che dando il via libera ad una manovra inutile si assicurano il galleggiamento perché non incidono nei problemi del paese e non creano contrasti, lasciando il disastro dell’economia pubblica così com’era. Ma a trarne vantaggio sono anche le banche tanto care ad Enrico Letta, alle quali sono stati fatti due regali non di piccolo valore. Il primo è che potranno rivalutare nei loro bilanci le partecipazioni in Banca d’Italia, apparendo sulla carta più solide di quanto in realtà sono; il secondo che potranno svalutare i crediti farlocchi in cinque anni anziché in 18.

Una manovra attendista, quindi, giusto per consentire a Letta e Alfano di non farsi nemici in attesa di capire che fine faranno Berlusconi e Renzi e quanto tempo potranno ancora galleggiare.

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