Il rischio dietro l’angolo non è che rinasca la Dc, ma che si resti nella palude

5 Ott 2013 15:57 - di Silvano Moffa

Se uno come Marco Follini, che di “democristianeria” se ne intende, invita alla prudenza, c’è da prestargli ascolto. Il suo sprone a distinguere tra la storia e la cronaca, e a non fare della Dc una “caricatura postuma” suscita più di una riflessione. Follini ha ragione nel dire che la Dc va letta nel suo contesto, che è quello dei suoi anni, del suo mezzo secolo. Tempi diversi. Tempi di guerra fredda e di spesa pubblica in ascesa; tempi  di “democratizzazione” dei ceti medi, di allargamento delle basi dello Stato; tempi in cui la politica scudocrociata, nella sua dimensione interclassista, trovava legna da ardere per riscaldare la casa e propulsione adeguata per  mettere a frutto la sua “straordinaria capacità di inclusione”.

Tramontati quei tempi,  per comporre oggi  l’alchimia di una rediviva Balena Bianca mancano troppi elementi. Analisi  giusta. Da sottoscrivere in pieno. E da mandare a memoria. Anzi, a futura memoria. Almeno per quelli che, nella dualità ambivalente  di Enrico Letta e di Angelino Alfano, si affannano a scorgere i prodromi di un ritorno all’antico, di una improbabile rinascenza.  A guardare le cose con più attenzione, si può dire che l’attrattività del governo, in epoca di larghe intese,  unisca  i due leader, entrambi di formazione democristiana, più di quanto sia foriera di unità all’interno dei loro rispettivi partiti. Perché è proprio questo che sta accadendo. Superata la tagliola del voto di fiducia, con tutto quel che ciò ha comportato in termini di contrapposizione, lacerazione e di ridicolo in casa Pdl,  le conseguenze che si registrano portano tutte ad una sostanziale scomposizione degli assetti precedenti. Se prima era soltanto il Pd a dover  celebrare il congresso, ora di fatto anche nel Pdl si intravede qualcosa di simile. Paradossalmente, i due partiti si stanno omologando.  O forse , più verosimilmente, sono costretti all’omologazione dalle circostanze che stanno portando al tramonto del “berlusconismo”,  se per “berlusconismo” si intende un modello di partito carismatico, incentrato sulla funzione preminente, esclusiva di un leader, non  riequilibrato da fattori di democrazia interna né supportato da adeguati processi di selezione di classe dirigente.

È presto per trarre  conclusioni affrettate. Come è prematuro stilare giudizi definitivi sulla storia di questi anni racchiusa, per molti versi, in quelle forme che i partiti e i movimenti si sono dati. Al momento rileva, soprattutto, il fatto che gli equilibri di governo,pur  uscito rafforzato dal voto di fiducia, possano risentire, invece,  del clima da resa dei conti che si respira tra “lealisti” e “alfaniani”, con questi ultimi molto attivi nel lanciare l’Opa sul partito, e gli altri che non  digeriranno facilmente il fatto di dover pagare lo scotto della cieca fedeltà al Capo. Sul versante del Pd, la situazione non è meno confusa. Renzi, a questo punto, non ha altre carte da giocare oltre quella del congresso, per fare quel che ha sempre detto: conquistare la segreteria del Pd per cambiare il partito. Niente appare scontato.  Non è escluso  che possa andare, prima o poi, in collisione proprio con Enrico Letta. Un rischio più concreto di quanto possa, al momento, apparire. In queste ore i suoi uomini si affannano nel mettere le mani avanti, giudicando non chiusa la “partita” con Berlusconi. Temono che la disputa sul riassetto interno al Pdl, dopo  la fronda nel voto di fiducia, vada troppo per le lunghe. Nutrono il sospetto che Alfano stia tergiversando, che Berlusconi  sia  stato dato in fuori gioco anzitempo, e possa ancora sfruttare la decadenza  e la cacciata dal Parlamento per  riprendere fiato all’opposizione. Così, tra timori, incertezze, tatticismi e vendette incrociate, si consuma  buona parte dell’ autunno del 2013. Come andrà a finire? Difficile immaginarlo.

Con questi chiari di luna, e da simili protagonisti, ci si può aspettare di tutto. Anche il contrario di quel che dicono. Non sarà più tempo di Balena Bianca, come dice Follini, ma questa “democristianeria” di complemento, con un occhio al governo e un occhio al partito, rischia di consegnare il paese alla palude. Peggio, ad un indistinto futuro.  C’è una nebbia che falsa le prospettive. Una nebbia a tratti spessa e compatta,  a tratti sfumata e caliginosa, come quella che si addensa su un vetro sporco. Una coltre che  separa da un punto di chiarezza, dalla luce che illumina il cammino. Nella foschia si scorgono luoghi deserti, case di partiti dismesse e in macerie, scorci di  paesaggi politici senza più chiese ed agorà, una scomposta moltitudine di arrampicatori, leccaculo, cortigiani, onnipotenti sul crinale del tramonto.  Eppure siamo in un passaggio cruciale, decisivo per la nostra sorte di italiani. Dovremmo cambiare i fondamenti dell’economia, il nostro stato sociale, ripensare le istituzioni, proporre un’Europa diversa da quella monetarista e menefreghista,  amorfa e ributtante mentre assiste impassibile alla sconvolgente tragedia dei disperati della Terra che affogano nei nostri mari. Dovremmo, con sapienza e umiltà, ragionare sul come ricucire la frattura con un intero paese che non ce la fa più, e che non crede più a nessuno. Dovremmo cercare di capire dove porta il flusso della storia nella quale ci troviamo: qual è il “salto di paradigma”, per dirla con Thomas Kuhn, che esso rappresenta. Invece, eccoci qui a parlare del Nulla che avanza. Che terribile tristezza!

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