Siria, Damasco accetta il piano russo: «Ma gli Usa smettano di armare i ribelli»

12 Set 2013 18:12 - di Antonio Pannullo

Venti civili alawiti fedeli a Bashar al Assad sono stati massacrati a Homs, in Siria, nelle ultime ore durante un’incursione dei ribelli anti-governativi, armati  e sostenuti dall’Occidente e in particolare dagli Stati Uniti. La Cia intanto, si apprende, sta continuando a rifornire gli “insorti” di armi e altro materiale.

Proprio nel momento in cui la parola sta tornando alla diplomazia, con la proposta russa di mettere sotto controllo le armi chimiche di Damasco, Washington e Parigi insistono sulla tesi secondo la quale le armi sarebbero state usate dal governo contro il suo stesso popolo, a fronte di prove fornite dalla Russia e da numerose altre fonti che asseriscono che le armi chimiche furono usate, e più volte, dai ribelli. Persino le Nazioni Unite, in passato pronte ad appoggiare interventi di peace enforcing e peace keeping nei teatri caldi come Iraq, Afghanistan, Kosovo o Bosnia, stavolta frenano l’aggressività del premio Nobel per la pace Barack Obama e del socialista François Hollande che sarebbero voluti intervenire come fecero in Libia, Paese nel quale la situazione della sicurezza è molto peggiorata dopo l’intervento armato. L’Italia, con il ministro degli Esteri Emma Bonino, con quella della Difesa Mauro Mauro e con lo stesso premier Enrico Letta, ha da subito espresso la sua contrarietà a un intervento armato contro quello che è il legittimo governo di uno Stato sovrano, minacciato da ribelli le cui fila sono composte prevalentemente da mercenari di Stati esteri. L’Italia ha svolto ogni tentativo per tentare di percorrere la strada del dialogo e della diplomazia, finora con buoni risultati. Da parte sua il presidente siriano Assad ha sottolineato che il processo di smantellamento delle armi chimiche del suo Paese non deve essere unilaterale e che gli Usa devono smettere di minacciare Damasco e di armare l’opposizione: «I terroristi tentano di provocare l’attacco americano sulla Siria», ha detto, sostenendo che i guerriglieri hanno nel loro arsenale armi chimiche ottenute da Paesi stranieri. Assad ha aggiunto di prevedere che il passaggio di informazioni sulle armi chimiche siriane alla comunità internazionale inizierà un mese dopo l’adesione di Damasco alla convenzione contro le armi chimiche. Secondo quanto si è appreso, è un piano in cinque tappe quello elaborato dalla Russia, e trasmesso mercoledì agli Usa, per mettere l’arsenale chimico siriano sotto il controllo internazionale e smantellarlo. Non sono indicati i tempi, ma secondo alcuni esperti potrebbero essere necessari anche anni. E almeno mezzo miliardo di dollari. La prima tappa, secondo fonti di stampa, sarà una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, dove Mosca vuole evitare ogni ultimatum e la minaccia del ricorso alla forza: a ispirarla potrebbe essere il segretario generale delle Nazioni Unite. Prima però occorrerà un accordo tra Usa e Russia su tutti i dettagli, dai tempi alle modalità di intervento, con la consulenza di esperti chimici dei due Paesi ma anche di esperti internazionali, dell’Onu e dell’ organizzazione per il divieto di armi chimiche. Quindi il governo siriano dovrà dichiarare con esattezza quali e quante armi chimiche possiede e dove sono custodite, compresi i luoghi di produzione: si parla di oltre 1000 tonnellate di agenti e precursori chimici stoccati in decine di posti, uno degli arsenali chimici più grandi del mondo. Damasco dovrà poi autorizzare e garantire il libero accesso degli ispettori dell’organizzazione per il divieto delle armi chimiche che, sotto mandato Onu, verificheranno sul campo le dichiarazioni del governo siriano. Ultima ma non meno facile tappa la distruzione dell’arsenale, in loco o più probabilmente all’estero. Secondo il quotidiano russo Kommersant, non è ancora stato deciso chi sarà incaricato delle operazioni di smantellamento ma non è escluso che esse siano effettuate congiuntamente da Usa e Russia nell’ambito dell’accordo sul disarmo Nunn-Lugar del 1991, rinnovato nel giugno 2013 da Obama e Putin a margine dell’ultimo G8, anche se in versione ridotta.

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