Scioperi e bocche chiuse. C’è chi dovrebbe ricordare le parole di Calamandrei
Si torna a parlare di una legge sulla rappresentanza sindacale. Questa volta, non è soltanto la Fiat a chiedere maggiori garanzie sul rispetto degli accordi e dei contratti , una volta sottoscritti. È il sottosegretario al Lavoro, Carlo Dell’Aringa, che conferma l’intenzione dell’esecutivo di mettere mano ad una materia così delicata e controversa. In che modo? Lo vedremo. Al di là di una generica indicazione di una normativa leggera, per il momento, non si va. Si lavora in sordina. Bocche ermeticamente chiuse al ministero; per non spaventare i sindacati, ovviamente. I quali, quando si tratta di mettere in campo sistemi di misurazione che evidenzino il grado effettivo di rappresentanza, basato sul numero reale degli iscritti, sono in preda all’orticaria. Temono che si scoprano gli altarini. A parole, per lo più, si dicono favorevoli (e come potrebbero sostenere il contrario, mettendo in discussione una semplice e universale regola democratica!). Quando dalle parole si tenta di passare ai fatti, non c’è nulla che li convinca ad accettare una legge che fissi principi che da soli non riescono a darsi. Per la verità, non sono mancate le occasioni in cui sono stati sottoscritti accordi tra Cgil, Cisl , Uil e Confindustria sui meccanismi di rappresentanza. La più recente risale al maggio scorso. Solo che si tratta di patti che non hanno valore erga omnes, sono validi soltanto per chi li ha sottoscritti, non impegnano altri lavoratori né gli altri sindacati. La Fiom, tanto per restare nel campo minato delle relazioni sindacali in casa Fiat, li contesta duramente. Una legge, insomma, farebbe cadere le obiezioni e renderebbe più chiaro lo scenario in cui ci si muove. Sappiamo che l’argomento incontra, per motivi opposti, riserve tanto a destra quanto a sinistra. L’ex ministro Maurizio Sacconi, per esempio, invoca piena libertà di contrattazione nel nome di una moderna democrazia liberale – più presunta che reale, a noi pare – mentre, sull’altro fronte, si teme di rompere il cordone ombelicale che lega il Pd alla Cgil. Eppure, a lor signori non dovrebbe sfuggire che un moderno sistema di relazioni industriali è condizione essenziale per la crescita economica,lo sviluppo e la coesione sociale. Ci sono due articoli , nella Costituzione, sistematicamente ignorati. Non sono i soli. Certamente. Ma sono tra i più rilevanti. Sono gli articoli 39 e 40. Il primo fissa il principio della rappresentanza sindacale in proporzione agli iscritti , il secondo si occupa del diritto di sciopero. Ritenere questi due principi sconnessi e mantenerli separati, oltre che errato, è ambiguo. E’ fuor di dubbio che la crisi economica e il clima di crescente incertezza sociale degli ultimi anni si sono accompagnati a un rilievo crescente delle organizzazioni sindacali nella vita economica del Paese. Le esigenze di modificazione del tradizionale sistema garantistico del diritto del lavoro, a fronte delle pressioni derivanti dalla nuova realtà economica scaturita dalla globalizzazione e dalle conseguenti istanze di flessibilità del mercato del lavoro, hanno indotto il legislatore a una valorizzazione dell’autonomia collettiva, soprattutto laddove più incisivi sono stati i processi di trasformazione della realtà produttiva e più urgente la tutela dell’occupazione. Qui, però, non è messa in discussione la primazia delle libere pattuizioni fra le parti. Intervenendo sui criteri di misurazione della rappresentatività sindacale e sulle modalità del diritto di sciopero si investono, semmai, profili di interesse generale, che attengono alla democrazia nei luoghi di lavoro e, assai spesso, alla tutela di consumatori e utenti. Si tratta di interventi di indirizzo e di supporto, che sappiano indicare una prospettiva di evoluzione in positivo di processi che le parti sociali, nella loro autonomia, sono chiamate comunque a governare e a gestire nel particolare. Nella passata legislatura, la XI Commissione Lavoro della Camera ebbe modo di approfondire la questione in una appositiva indagine conoscitiva sul modello delle relazioni industriali nel nostro Paese. Tra le conclusioni a cui la Commissione era giunta vi era l’indicazione della necessità di immaginare un nuovo modello per il doppio livello di contrattazione ( contratto nazionale e contratto territoriale o aziendale). Il nuovo modello richiedeva un complessivo ripensamento del ruolo sindacale e l’esigenza di definire su basi chiare i criteri di misurazione della rappresentatività e la titolarità del diritto di sciopero. Quell’urgenza non è venuta meno. Tutt’altro. Un passo avanti per affrontarla si potrebbe fare trasformando in norma, cioè in legge uguale per tutti, il contenuto di alcuni accordi sottoscritti dalla parti sociali. Al Senato fu assegnato, non molto tempo fa, un disegno di legge del Governo che includeva la delega per la regolamentazione e prevenzione dei conflitti collettivi di lavoro. Basterebbe riprendere le linee principali di quella proposta. Laddove, per esempio, viene fissata una soglia minima di rappresentatività (oltre il 50%) per esercitare il diritto di proclamare lo sciopero. Oppure , per le organizzazioni sindacali che non superano la soglia, viene previsto il ricorso obbligatorio al referendum preventivo, stabilendo, anche in questo caso, una soglia più bassa di rappresentanza per l’organizzazione che indice lo sciopero, e una percentuale minima di voti al fine d rendere valido il consenso dei lavoratori. Il tempo è maturo per mettere ordine nella materia. Uno dei più autorevoli tra i primi commentatori della Costituzione repubblicana, Calamandrei, osservava, nel lontano 1952, che “dal momento in cui lo sciopero ha accettato di diventare un diritto, esso si è adattato necessariamente a sentire prefiggere condizioni e restrizioni di esercizio che, se non venissero stabilite per legge, dovrebbero immancabilmente essere tracciate, prima o poi, sulla base dell’art. 40 della Costituzione, dalla giurisprudenza”. Una previsione che si è puntualmente verificata. Con le conseguenze che tutti ormai conosciamo.