Il vino antidoto alla guerra? In Siria una famiglia di imprenditori ci prova nonostante le bombe
«Il vino è la poesia della terra», diceva Mario Soldati, scrittore e cineasta appassionato sostenitore della “viticultura”. Anche in una terra martoriata da insurrezioni e repressioni, anzi, soprattutto: se è vero, come scriveva Jack Kerouac, che «C’è saggezza nel vino». E allora, una coppa del “nettare divino” può funzionare come antidoto alla guerra? Il distillato di Bacco che inebria l’anima può, tra effluvi dionisiaci e rimandi olfattivi, invocare anche le ragioni della pace? Quanto meno può esortare a resistere: lo testimonia una storia di straordinaria “imprenditoria” aggiornata alla stagione del conflitto civile siriano, in cui le bombe, i gas chimici, il massacro di donne e bambini, le vendette tra esercito e milizie ribelli non sono riusciti ad osteggiare il millenario rito enologico, affidato alla celebrazione, faticosa e non esente da difficoltà estreme e sacrifici fuori del comune, di una famiglia di viticoltori, i Saadé, proprietaria di Château Bargylus vicino a Latakia, in Siria, e di Château Marsia nella Bekaa Valley, in Libano.
Una piccola storia, ma di grande esemplarità, che la stampa internazionale, soprattutto statunitense – e nei giorni scorsi diffusa in Italia da una rubrica del Corriere della sera – ha rilanciato sulla piattaforma globale, a dimostrazione che la ripresa può iniziare anche dalla vigna: comunque. I Saadé, dinastia di importanti imprenditori, già negli anni Sessanta sono stati costretti ad affrontare un momento duro, quando il governo locale li ha espropriati di tutti i loro beni. Abbandonato il Paese, sono riusciti a tornare solo molto tempo dopo, pronti a rispolverare un’antica tradizione siriana, poi quasi scomparsa durante il dominio musulmano, e a ricominciare dalla produzione del vino. Da dieci anni a questa parte hanno piantato vitigni alle pendici dei monti Al-Ansariyah, nel Nord-Ovest del Paese, arrivando ad ottenere la prima vendemmia solo tre anni dopo l’impianto del primo vigneto.
Un lavoro oggi saldamente radicato nel terreno siriano, che nel corso del tempo è arrivato ad avvalersi anche della collaborazione di Stéphane Derenoncourt, consulente francese dal curriculum blasonato che ha all’attivo – solo per citarne alcune – la collaborazione per importanti cantine a Bordeaux e per Francis Ford Coppola nella Napa Valley. Un progetto che oggi, a due anni dal conflitto civile, risulta essere – a dispetto di tutto – la prima proposta siriana per la rinascita del vino di qualità. Un’attività non intaccata dalla diaspora dei profughi in fuga dal Paese in guerra, a cui partecipano stagionalmente squadre di lavoratori ingaggiati per la vendemmia: almeno sessanta operai insieme a 15 dipendenti fissi, piccoli eroi quotidiani alle prese con il prodigio dell’innesto della rinascita su un terreno di guerra.