Il suicidio della politica, il circo mediatico e le teorie di Emile Durkheim

28 Set 2013 15:11 - di Silvano Moffa

Per rendere l’idea di quel che sta accadendo nella politica italiana dovremmo forse ricorrere a Emile Durkheim e alle sue teorie sul suicidio. Il messaggio finale racchiuso nel gesto estremo, inteso come ultima richiesta di aiuto, un misto di follia e narcisismo, talmente grande da immaginare la propria morte come una ulteriore occasione per far parlare di sé. Da qualunque parte si osservi il panorama desolante che ci circonda, ne traiamo la convinzione che il declino sia totale. E non ci riferiamo soltanto allo stato dei nostri conti pubblici, allo spread, al Pil che cala vistosamente, alla disperazione di chi è disoccupato, al crescente indebitamento delle famiglie, a una pressione fiscale insostenibile, alla destrutturazione del sistema industriale, alla sistematica spoliazione degli asset strategici che rendono il nostro Paese simile ad un supermarket dell’esproprio e della svendita di merce pregiata; né il tormento che angoscia la nostra quotidianità, all’epoca della Grande Crisi, è riducibile al rutilante bla bla  traboccante nei talk show televisivi, che si accalcano, come mosche fastidiose, a rendere indigeste le serate degli italiani: un vociare assordante, insultante, sguaiato, irritante nel profluvio di banalità, dove i protagonisti si trasformano in figuranti di un circo mediatico costruito ad uso e consumo dei conduttori, loro sì protagonisti assoluti del verbo catodico, con quell’aria da giudici dispensatori di  pregiudizi. Al di là di tutto questo, e non è poco, deprime la sconsolante registrazione di impotenza, quella innaturale rassegnazione in cui sembra  sfumare il minimo senso di reazione all’irrazionalità che batte furente alle porte della nostra storia. Come se tutto fosse già scritto, in questa inarrestabile rincorsa verso il nulla, nello sprofondare sempre più giù, giorno dopo giorno, nel baratro dove si spengono anche le ultime speranze. Suicidio, appunto. Suicidio della democrazia. Suicidio della politica. Suicidio di un Paese allo sbando. Suicidio delle istituzioni. E potremmo continuare oltre. All’infinito.  Nelle convulse giornate di avvicinamento alla data del voto che dovrà sancire l’espulsione o meno dal Senato di Berlusconi, il conflitto sta ormai assumendo i caratteri di un conflitto istituzionale, oltre che politico. Si sarebbe potuto evitare ? Forse sì, se  con un minimo di razionalità politica il Pd avesse lasciato aperta la porta del ricorso alla Consulta per dirimere la  complessa vicenda della applicazione retroattiva della cosiddetta Legge Severino,  che  fissa la decadenza dei parlamentari condannati in via definitiva per reati particolarmente odiosi. E quello di frode fiscale, lo è. Per Berlusconi, però va ricordato, c’è la particolarità di una condanna della Cassazione  intervenuta dopo che, su vicenda analoga, era stata pronunciata piena assoluzione. Per non parlare del singolare comportamento del giudice Esposito, presidente della sezione che lo ha giudicato, tanto loquace con i giornalisti, prima ancora che le motivazioni della sentenza fossero pubbliche, quanto imprudente nel manifestare  un congenito antiberlusconismo  tempo addietro. Insomma, non proprio specchio lucente di una magistratura che si vorrebbe aliena dalla politica, immacolata nella sua funzione di terzietà e , soprattutto, preparata a svolgere il suo lavoro di garante della giustizia, avvolta nella veste sacrale di una deontologia professionale degna di tal fatta. Fatto sta che  le vicende congressuali del Pd hanno inciso a tal punto da impedire di aprire quella porta, fino a rendere  impervia la sopravvivenza dello stesso governo Letta. Un errore enorme. Che denota irrazionalità e mancanza di strategia. Non che le cose vadano lette in modo diverso sull’altro versante: quello del Pdl.  Qui la confusione regna sovrana. Tra falchi e colombe, è andata in scena  una ben misera commedia. Alla umana, comprensibile e , per molti versi, obbligata solidarietà verso il Capo, non si è accompagnato un disegno strategico volto a superare il presente per costruire il futuro. Tranne che non si voglia ritenere che il “futuro” del centrodestra  possa esaurirsi, in tutto e per tutto, nella riscoperta del simbolo di Forza Italia. Il ché è legittimo pensarlo, per carità.  Almeno fin tanto che il Cavaliere , domiciliari o meno, resterà in sella e al timone. Ma che potrebbe rivelarsi  una fatale illusione. Si avverte in giro, nel  profondo della nostra comunità nazionale, tra la gente comune, un sentimento di crescente fastidio, di malumore e stanchezza che sarebbe sbagliato sottovalutare. Ciò vale sia nell’ambito del centrodestra sia nell’ambito del centrosinistra. Si ha l’impressione che Pd e Pdl  abbiano perso contezza della lezione elettorale ricevuta a febbraio, con la pesante perdita di una consistente fetta del proprio elettorato, finito in pasto ai grillini, e per la maggior parte, rifugiatosi nell’area dell’astensionismo . Ridotti a minoranze, questi due partiti  hanno assorbito la botta come nulla fosse. Eppure, se c’è stata una ragione per mettere in piedi il governo delle cosiddette larghe intese, stava proprio in questa loro reciproca debolezza. Sbaglieremmo, ma  a noi non pare affatto che  l’indisponente rigidità pidiessina o la ecumenica chiamata alle dimissioni dei parlamentari pidiellini segnino il tratto di una ritrovata capacità di recupero al voto degli italiani delusi. Anche perché, alla delusione ora si aggiunge la rabbia.

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