La crisi? Si combatte con la fiducia, ma lo Stato rispetti i patti su fisco e lavoro

8 Lug 2013 17:53 - di Silvano Moffa

Ritrovare la fiducia. Ecco il punto. Il mantra che da questo momento in poi scandirà le nostre giornate. E riempirà il vuoto che è dentro di noi. Fiducia in noi stessi per sconfiggere il tarlo del pessimismo che ci corrode. Fiducia negli altri, visto che gli altri hanno fiducia in noi. Fiducia nel governo Letta che, quanto a fiducia, ne ha ottenuta già tanta dal combinato disposto dello schieramento partitico sceso in campo a sostenerlo. Fiducia per superare “la cappa di autolesionismo e di sottovalutazione” che, come dice il Presidente del Consiglio, ci perseguita e ci soffoca. Fiducia a tutto tondo, invoca all’Expo il Presidente della Repubblica, per superare le “diatribe domestiche” e alzare lo sguardo verso traiettorie più alte a segnare il destino futuro della nostra Italia.

Tutto giusto. Tutto vero. Se un popolo non ha fiducia in se stesso come può ambire al riscatto, ad elevarsi dalla condizione di crisi in cui è precipitato? Senza fiducia non si va da nessuna parte. Non si cresce, ci si deprime. Si  sprofonda nella rassegnazione. In un cupio dissolvi  dal quale non  si salva niente e nessuno. In fondo, la storia ci ha insegnato che dalle crisi ci si risolleva con le proprie forze. E sempre la storia ci insegna che , facendo leva sulle sue capacità – un giacimento enorme e prezioso di intelligenza, cultura, creatività, intraprendenza –  la nostra comunità ha saputo risollevarsi dalla devastazione di ben due guerre mondiali. Il Made in Italy, del quale siamo andati orgogliosi nel mondo, nacque dalla tenacia pionieristica dei nostri sarti, dalla mani sapienti di maestri del design , dal laborioso ed esclusivo lavoro di confezionamento  dei nostri ciabattini e pellicciai, dalla cura per l’arredamento dei nostri mobilieri, tutto artigianalmente condito dal superbo gusto della bellezza. Noi, italiani doc. Artisti e arditi. Capaci di aprire ed aprirsi alle nuove frontiere della competizione, senza soggezione alcuna. Con il coraggio di chi sa cimentarsi con la quantità  impugnando le armi della qualità.

E’ mai possibile che tutto questo sia svanito ? Che di questo patrimonio, forgiato nei secoli, non resti più nulla ? No, non è possibile. Ha fatto bene il Presidente della Repubblica a ricordarlo. Abbiamo ancora capacità da dispiegare in questo mondo globale che pure ci offre il  risvolto peggiore. Abbiamo  ancora molto da dire se solo si lasciassero lavorare gli imprenditori; se la burocrazia, nelle sue forme assurde e opprimenti, fosse tolta di mezzo, cancellata; se di semplificazione si parlasse meno e si operasse di più; se ridessimo ruolo e funzione formativa alle università; se lasciassimo spazio alla ricerca; se la cultura non fosse un optional  da esibire nei rituali del  premio Strega ma qualcosa su cui investire per  lo sviluppo del turismo e la crescita della nostra economia; se decidessimo, una buona volta, su quali asset  puntare per modellare  il nostro futuro competitivo; se dal Mediterraneo partissimo per riportare il Mediterraneo al centro dei traffici, della logistica integrata, della straordinaria mobilità che ha messo in movimento il mondo intero . Cuore pulsante, motore infinito di un intreccio fecondo di popoli e genti che viaggiano con le loro merci da est ad ovest, da ovest ad est, da nord a sud, da sud a nord.

Ma come si alimenta la fiducia? Si può chiedere ai cittadini di avere fiducia nello Stato se è lo Stato che, per primo, non rispetta i patti ? Se non paga i suoi creditori? Se lascia fallire le imprese che pure sarebbero salve se solo potessero riscuotere quel che loro è dovuto? E la finanza? Che cosa consente di affidare serenamente ad altri i propri risparmi nella consapevolezza che la controparte non verrà meno ai suoi doveri  basati, appunto, sulla fiducia? Quel che è accaduto  con la Grande crisi che ci trasciniamo dietro dimostra che è fallita la capacità delle banche e del mercato di autoregolarsi. Riprendendo Smith e la sua analisi morale, c’è solo una strada da percorrere: il recupero della virtù della prudenza.  Un virtù che va coniugata  con il ribaltamento dei ruoli. Gaudenzio Sella, nipote di Quintino, ministro delle Finanze della Destra storica, fonda nel 1886 la banca di famiglia e scrive: “Ai clienti non facciamo un favore nel servirli, ma sono loro che ci onorano con la loro scelta. E’ la qualità della clientela ciò che costituisce l’elemento principale del credito di una banca”. Nel 1909, Sella introduce una modifica statuaria che vieta alla banca “di impiegare denaro in azioni e di promuovere direttamente o indirettamente la costituzioni di società per azioni e anche soltanto di prendervi parte”.  I rischi della commistione dell’attività bancaria commerciale e di investimento,  ricorda in un saggio recente Bernardo Bortolotti, gli erano già chiari un quarto di secolo prima che Roosevelt emanasse il Glass-Steagall Act . Altri tempi.  Certamente. Ma se non riusciremo a ribaltare, in politica come in economia,  i paradigmi che hanno spento la fiducia nell’animo delle nostre genti,  non potremo far altro che percuoterci il petto.

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