Invece di recriminare, la Fiom sfidi Marchionne sul terreno della competitività

31 Lug 2013 18:10 - di Mario Landolfi

Quando Marchionne minaccia di portare fuori dall’Italia i marchi automobilistici in suo possesso, l’ultimo è quello mitico dell’Alfa, la politica si divide solitamente in chi senza tanti giri di parole lo accusa di arroganza e di terrorismo padronale e chi invece, specie nel centrodestra, pur dandogli sostanzialmente ragione circa l’impossibilità di fare impresa nel Belpaese, gli consiglia bonariamente di non insistere più di tanto sull’argomento in nome delle generose politiche di sostegno godute dalla Fiat sotto ogni governo.

Ora, che Marchionne sia uno che non le manda a dire e che abbia in ostentata antipatia i rivoluzionari da salotto cui tante volte la grande impresa ha teso la mano e non solo la mano, è dato difficilmente negabile. Così come è inconfutabile che Fiat sia stata per decenni l’emblema italiano della grande industria assistita, fedele specchio in chiave sindacal-imprenditoriale di quello spirito di Yalta che aveva sagomato i rapporti politici del nostro immediato dopoguerra. Tutto questo, però, non autorizza nessuno a fare spallucce di fronte alla clamorosa denuncia dell’ad del Lingotto.

Non appaiono perciò particolarmente ispirate le parole del ministro Giovannini, che ha negato in tronco l’esistenza del problema assicurando che “in Italia si investe ancora”. Sarà anche vero. Ma ha calcolato il responsabile della Funzione Pubblica quante aziende chiudono quotidianamente e quanti lavoratori passano ogni giorno dalla catena di montaggio alla cassa integrazione, quindi alla procedura di mobilità per finire poi prepensionati nel migliore dei casi o licenziati nella peggiore delle ipotesi? Certo, la crisi in Europa morde chiunque che non sia la Germania o l’esclusivissimo club delle nazioni fiammingo-finnico-scandinave ma è davvero difficile scorgere un mezzo gaudio in questo mal comune ove si consideri che solo da noi si saldano in una pericolosa catena distruttiva diseconomie antiche e recenti che stanno ponendo a durissima prova il nostro sistema produttivo. In nessun altro Paese un asset strategico come l’Ilva di Taranto sarebbe stato trattato alla stregua di una maleodorante ciabatta. Eppure la sua sostanziale chiusura segna di fatto la fine della siderurgia in Italia. E forse da nessun altra parte la Corte Costituzionale avrebbe difeso in astratto il principio della rappresentanza sindacale senza valutarne le concrete ricadute giuridiche. E carità di patria ci impone di tralasciare altre questioni come la sovrapposizione delle competenze introdotta dal novellato Titolo V della Costituzione, il peso della burocrazia, la presenza radicata e diffusa della criminalità organizzata, il carico fiscale ormai insostenibile, il costo del lavoro.

Dobbiamo convincerci che Marchionne ragiona da imprenditore secondo parametri legati alla competitività ed al profitto. Guida una multinazionale immersa nella sfida della selezione globale e sa che un “suo” operaio serbo percepisce un salario di 309 euro mensili cioè poco meno di un terzo di un “suo” lavoratore italiano. Delocalizzare gli converrebbe e non saranno certo i sermoni sui privilegi goduti in passato a procurargli un soprassalto di responsabilità sociale. Così com’è difficile che Landini, la Fiom o la Camusso riescano a fargli cambiare idea con le loro ferme e vibrate denunce contro le ingiustizie e le disuguaglianze introdotte dalla globalizzazione. “Nun gliene pò fregà de meno”, direbbero a Roma. Anche perché, a fine anno, agli azionisti Marchionne deve rendicontare in termini di investimenti, dividendi e perdite e non – sebbene sia laureato in filosofia – avanzare considerazioni di carattere morale.

La soluzione migliore consiste nello sfidare Marchionne sul suo stesso terreno: la politica ridando fiato e prospettiva ad un progetto industriale che non si limiti alle nomine in Eni, Enel e Finmeccanica ma soprattutto dichiarando guerra alle diseconomie esterne al sistema produttivo; il sindacato inaugurando una nuova fase delle relazioni aziendali in grado di rendere, sul modello tedesco, gli operai i veri protagonisti della ripresa competitiva della nostra industria. Al contrario, se il governo continuerà solo ad annunciare e il sindacato solo a rivendicare, a Marchionne non resterà che scappare.

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