Cultura: l’autogol dell’Italia. Gli Usa con la metà dei siti hanno un ritorno commerciale sette volte superiore al nostro

1 Lug 2013 16:21 - di Silvano Moffa

La cultura è l’unica cosa che dura nel tempo. Ma noi non la curiamo. Peggio. Siamo talmente autolesionisti da lasciare chiusi i musei e code interminabili di turisti fuori. Nel 1012 i visitatori dei nostri siti sono diminuiti di 4 milioni. Una emorragia. Non  spiegabile soltanto  con la crisi economica, dal momento che in altri Paesi europei, meno dotati di noi quanto a beni archeologici e monumentali, si registrano trend positivi. Nonostante gli sforzi, non riusciamo ancora a sistemare Pompei. Dopo tante polemiche, sembrava che ci potesse essere un po’ di sereno all’annuncio dei primi fondi stanziati da Regione e Comunità europea per  il restauro. Niente di niente. Pompei continua a far notizia per i ritardi negli appalti, i conflitti sindacali, le indecenti code dinanzi alle biglietterie chiuse. Una vergogna nazionale.

Per nostra ignavia e per i nostri cronici ritardi, ora l’Unesco minaccia di cancellare Pompei dai siti patrimonio dell’umanità, insieme a Oplontis ed Ercolano. Così, anche la nostra reputazione si  va definitivamente a far benedire. Le cose non vanno meglio per il Colosseo,  altra preziosità unica al mondo. Sembrava che l’intervento conservativo teso a salvaguardare il monumento fosse cosa fatta, dopo l’accordo pubblico-privato tra il Comune di Roma e l’imprenditore Della Valle, primo virtuoso esempio di “mecenatismo” del  nuovo millennio, incrocio di una finanza “buona” con le ambizioni  di una pubblicità planetaria. Invece, anche in questo caso, soltanto ritardi e complicazioni. Con in più i tribunali amministrativi a cercare il pelo nell’uovo. E le assemblee sindacali degli addetti ad aumentare il tasso di insofferenza tra i turisti in attesa di visitare quei ruderi che pulsano di storia.

Chi viene in Italia con il proposito di ammirare le meraviglie del mondo, rischia di tornarsene a casa con le pive nel sacco. Ieri, a Roma, tra le guide turistiche circolava la voce delle chiusure della Galleria Borghese, Villa Adriana, Villa d’Este. Né le cose vanno meglio a Firenze. Nel venerdì nero della scorsa settimana per il nostro patrimonio artistico, anche la galleria dell’Accademia che ospita il David di Michelangelo, come pure gli Uffizi, hanno chiuso i battenti per lasciar spazio alle assemblee sindacali. Un incubo.

Intendiamoci, gli addetti ai servizi di custodia e di tenuta dei nostri musei e dei nostri siti archeologici sono pochi e mal pagati. Avranno pure le loro ragioni. Ma il risultato delle loro proteste è devastante per l’immagine dell’Italia nel mondo e per le nostre stesse esangui casse statali. Sappiamo  che non possiamo prendercela con loro più di tanto. La verità  è che stiamo pagando ritardi storici e  la cronica assenza di una politica adeguata. Manca una visione complessiva che metta i Beni culturali tra gli interessi prioritari su cui il Paese può far leva per riprendersi e rimodellarsi  nell’uscire dalla pesante crisi economica, sociale e finanziaria che stiamo vivendo.

Sappiamo tutti che il patrimonio culturale italiano è il capitale più ricco del mondo. Abbiamo  45 siti Unesco, oltre 3.400 musei di cui 1000 ecclesiastici, 2 mila aree e parchi archeologici. Per non parlare delle numerosissime opere, quadri e sculture, ammucchiati nei sottoscala dei ministeri, oppure  nella disponibilità delle banche o di proprietà dei privati. Ma è un capitale che non rende. E’ un capitale a rischio bancarotta. Prendiamo il museo degli Uffizi.  E’ il museo tra i più visitati nel mondo. Eppure si  piazza soltanto al ventunesimo posto. Tra i  primi cinque, due sono francesi (il Louvre e il Beaubourg), due inglesi (British e Tate Modern), uno americano (Metropolitan).

Secondo lo studio della PiceWaterhouseCoopers, gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all’Italia, hanno un ritorno commerciale pari a sette volte quello italiano (160 milioni di euro contro i nostri 21). E’ vero, spediamo molto meno rispetto agli altri.  Già nel 2008 l’Italia investiva in cultura lo 0,28 per cento del Pil contro una media degli altri paesi europei dell’1,5 per cento. Negli ultimi cinque anni le risorse si sono contratte di un ulteriore 58 per cento. Pochissimi investimenti e cifre irrisorie per pagare i pochi addetti, quando ne servirebbero il quadruplo. Insomma, siamo messi male in tutti i sensi.

Eppure qualcosa si potrebbe fare. Cominciando con il pensare che questo patrimonio ereditato dal passato rappresenta un potenziale enorme. Una grande opportunità in termini strategici. Un asset su cui costruire un modello di sviluppo. Una fonte generatrice di ricchezza e di nuova occupazione, soprattutto giovanile. Basterebbe farsi guidare dallo sguardo  di lungo periodo. Incentivando  fiscalmente  le imprese ad investire nella cultura. Mettendo in circolazione nel mondo questo enorme capitale. Formando competenze e professionalità tecniche, usando le nuove tecnologie, dando spazio alla creatività.  Solo così potremmo  trasformare i Beni culturali in una potente macchina per la loro valorizzazione e crescita. E sperare di non doverci più vergognare dei nostri imperdonabili difetti.

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