Come cambia l’insulto politico: dalla caccia al “fascista” all’orango, dall’ideologia alla fisiognomica
È un’estate in cui siamo destinati a fare il conto delle castronerie che affiorano sulle labbra di politici inadeguati. E tutto a causa di un orango, quello cui Calderoli ha paragonato il ministro Kyenge. Il capitolo non è chiuso. C’è stato un consigliere di Sel che ha auspicato che una leghista fosse stuprata da venti negri. E ora un nuovo caso, sollevato ancora dalla lega, sullo striscione esposto dai consiglieri vendoliani fuori dai propri uffici comunali con l’immagine di una donna di colore che dà del Calderoli a una scimmia. Il gioco a chi è più intollerante è in pieno corso, insomma, e segna la metamorfosi dell’insulto politico, facendo scivolare l’epiteto rivolto all’avversario dal piano dell’ideologia a quello della curva da stadio.
Un tempo era tutto più chiaro, bastava l’aggettivo “fascista” e la demonizzazione scattava in modo immediato e convincente. Scattava al punto da giustificare l’incitamento all’eliminazione fisica del fascista suddetto. E non c’era lo scandalismo odierno a rintuzzare quella caccia alle streghe. Oggi anche quell’attribuzione, “fascista”, è diventata ormai un oltraggio all’acqua di rose e bisogna scavare nella fisiognomica per conquistare un titolo di giornale, animare un dibattito alla Camera, far riunire i probiviri di un partito. Non si insultano le idee, ma ci si concentra sul difetto fisico, vero e presunto che sia.
Un tempo l’insulto non ti dava visibilità ma ti attirava addosso l’accusa di infantilismo politico e i media non sprecavano tempo con le menti immature. Oggi la questione è ribaltata: più la spari grossa più ti crei un giro di amici e nemici che ti fanno sentire qualcuno. Più ricalchi lo stile da camionista e più riesci a bucare il grigiore del politichese.
E ci si chiede se non sia il caso di rivalutarlo, il politichese. Perché, pur nella sua incomprensibilità, pur nella sua arrogante presunzione di codice per addetti ai lavori, inviava i segnali giusti a chi era in grado di decrittarli. Oggi non c’è più “mestiere” neanche per i cronisti politici: non hanno bisogno di interpretare, basta seguire la pista dell’insulto e una notizia riesci a confezionarla.
Intendiamoci, non che i politici della prima Repubblica fossero teneri con gli avversari. Tutt’altro. Ma quando dovevano spargere veleno lo facevano con stile, con una raffinatezza che lasciava l’opinione pubblica nell’incertezza e con la domanda sospesa a metà: “Avrà voluto veramente dire quella cosa lì?”. Memorabile a tal proposito lo scontro tra Bettino Craxi e Giulio Andreotti sul ritrovamento delle carte di Moro nel covo di via Monte Nevoso nel 1993. Il primo disse che dietro la scoperta c’era una “manina”. Una chiara allusione ad Andreotti, il quale replicò che, semmai, dietro al ritrovamento c’era una “manona”. Ecco, si erano detti cose terribili, ma senza brutalità. Con un solo vocabolo. Un tempo anche l’insulto aveva un’estetica.