Un film su Giorgio Chinaglia e la “voglia di vincere” di un bambino gravemente malato

14 Giu 2013 20:01 - di Redattore 54

Cominceranno a settembre le riprese del film su Giorgio Chinaglia tratto dal romanzo Il talento della malattia di Alessandro Moscè (Avagliano Editore). Diretto dal regista Stefano Calvagna, il film verrà girato tra Fabriano, nelle Marche, e Roma: racconterà la storia autobiografica dell’autore, Alessandro Moscè, e del suo idolo, il rimpianto attaccante della Lazio Giorgio Chinaglia, scomparso un anno fa. A 13 anni la vita di Alessandro cambiò radicalmente: colpito da una rara malattia, il sarcoma di Ewing, aveva pochissime speranze di sopravvivere. Il  ragazzino però vincerà la sua “partita” con il destino avverso anche grazie alle imprese di Long John, che diviene la sua “motivazione antagonista”, l’arma interiore per vincere l’ossessione della malattia. La sceneggiatura è stata scritta da Giovanni Galletta e il film è prodotto dalla Poker Entertainment. Andrà in distribuzione nazionale nel 2014.

Il romanzo di Moscè spiega in che modo l’identificazione con un “eroe” riesce ad avere efficacia terapeutica, a suscitare l’energia interiore necessaria per vincere una diagnosi da “caso disperato”. “Ogni bambino – scrive Moscè – ha il suo eroe. Si tratta, di solito di un personaggio dei fumetti o d’avventura. Capitan America, Batman, Superman, Goldrake, Mazinga Z e l’Uomo Ragno sono stati i più ricorrenti per la generazione nata tra gli anni Sessanta e Settanta. Ma quando un eroe esiste in carne e ossa, allora diventa facilmente un mito, specie per chi racconta lo sport e coglie le gesta dell’uomo…”. Così, il piccolo Alessandro alle prese con la malattia lascia che sia proprio Long Jhon a operare il “miracolo”: se per la curva nord “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”, per Alessandro le sue vittorie sono il “mito” che risveglia la voglia di vivere a dispetto di ogni dolore.

Il ragazzo scrive una lettera al suo campione. “Se Chinaglia ha mandato a quel paese l’allenatore della nazionale italiana – scrive oggi Moscè – io ho mandato a quel paese la morte, ho pensato a quattordici anni. Gli ho scritto una lettera che non ha mai letto. Una lettera accorata. Una lettera disperata. Una lettera commovente…”. Lo incontrerà anni dopo, a guarigione avvenuta. “Il bambino di allora – spiega l’autore de Il talento della malattia in un’intervista – aveva bisogno di un simbolo di spavalderia, di sfrontatezza, dentro la camerata d’ospedale dove lottava tra la vita e la morte. Giorgione voleva vedermi ultimamente, ma non poteva rientrare in Italia perché sotto processo. L’ultima volta che l’ho sentito, anni fa, mi ha confermato quello che disse una volta ad un grande giornale americano: ‘Non sono io ad aver giocato con Pelè. E’ lui che ha giocato con me’. Ridemmo di gusto”. Una bella storia sullo sport migliore, quello che insegna come l’agonismo può diventare fattore di guarigione.

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