Le proposte degli chef al ministro Bray: più formazione e un’università della gastronomia
A pochi giorni dalla ‘gaffe’ del suo sottosegretario Borletti Buitoni, travolta dalle polemiche per aver detto che ‘in Italia si mangia male’, il neo ministro dei beni culturali e turismo Massimo Bray approfitta di un convegno organizzato dal patron di Eatitaly Oscar Farinetti per ascoltare le voci degli chef più blasonati del made in Italy e aprire un dialogo che in qualche modo ricuce lo strappo. “I cuochi sono ambasciatori dell’eccellenza italiana”, twitta ancora prima di intervenire. Loro, i pluristellati chef italiani, sono praticamente tutti lì, attorno al magrissimo ministro, che di suo dà l’idea di non aver mai molto apprezzato le gioie del palato. Ma non importa, tanto più che nella serissima sala del convegno del cibo non arrivano neppure gli aromi. In barba alle polemiche roventi culminate giorni fa anche in una lettera di protesta indirizzata al presidente del consiglio Letta, comunque l’atmosfera a Eatitaly non è polemica. Anzi, Farinetti introduce l’argomento invitando tutti a “non lamentarsi” e tutti, dal torinese Davide Scabin al siciliano Pino Cuttaia, dal tedesco italianizzato Hein Beck all’emiliano Massimo Bottura (solo per citarne alcuni) raccolgono l’invito. Farinetti lancia la prima richiesta: portare il numero dei turisti stranieri in Italia dagli attuali 47,5 milioni 120 milioni in sei anni. Un obiettivo che, tradotto nei tempi limitati dell’attuale governo, viene anche rimodulato in “7 milioni di turisti in più in sei mesi”.
Bray tace e ascolta. Gli altri intervengono uno ad uno, Cuttaia chiede “più attenzione per la formazione e la possibilità di fare apprendistato”, il veronese Giancarlo Perbellini lancia l’allarme camerieri (“Dopo le trasmissioni tv tutti vogliono fare i cuochi ma non si trovano camerieri e sommelier), il milanese Claudio Sadler lamenta le limitazioni di legge per gli stagisti. E’ Scabin a parlare più a lungo: chiede che vengano tutelate le piccole produzioni. E sottolinea la necessità di comunicare meglio l’eccellenza italiana all’estero (“in Italia abbiano troppe nonne, non riusciamo a codificare la nostra immagine all’estero”) mentre auspica un organo di controllo che selezioni il meglio per dare comunicazione all’estero. Anche per Raffaele Alajmo bisogna investire sulla comunicazione e sulla formazione del personale. Beck ritorna sulla difficoltà di trovare personale di sala (“vengono questi ragazzi che si sentono subito cuochi, non vogliono pelare le patate pretendono di esprimersi”). Unica donna, Cristina Bowerman chiede un’università della gastronomia e denuncia “una fuga di cervelli a livello culinario”, Marino Cedroni vorrebbe anche in Italia un premio istituzionale come il francese Bocuse d’Or. Alla fine è il napoletano Gennaro Esposito a consegnare al ministro un dossier con richieste e proposte.
Bray la prende alla lontana, cita la sua infanzia quando nella grande cucina di casa leggeva alla mamma Il talismano della felicità, racconta il suo lavoro per la notte della Taranta. Poi denuncia la troppa burocrazia che affligge lo stato italiano e sottolinea: “non devo fare niente , dobbiamo togliere le barriere che di fatto vi impediscono di afferrare quello che sapete fare, dobbiamo dare energia al paese, capacità di fare”. La vera priorità per la cucina italiana “è diffondere la consapevolezza del valore”, sostiene. Ma tra le suggestioni del ministro c’è anche quella di portare l’eccellenza gastronomica nelle caffetterie dei musei, rimasti troppo a lungo, dice, “nell’abbandono”, chiedere una Scuola Normale per la gastronomia, porre il problema delle licenze e della provenienza del cibo e ricominciare a pianificare. “Voglio essere un ministro di servizio”, conclude. Gli chef applaudono.