Il risiko delle Commissioni certifica il dominio della partitocrazia
“Il potere logora chi non ce l’ha”, diceva lo scomparso Giulio Andreotti. È in questa frase il suo lascito politico che mette d’accordo tutti. E infatti, tutti, nessuno escluso, neppure i più feroci fustigatori dei costumi pubblici, si accaniscono, specialmente in queste ore, per assicurarsi fette di potere a prescindere da capacità, competenze, opportunità, lunga permanenza sulle poltrone di Stato. Prima le forze politiche si sono spartite, mandando all’aria il “sobrio” e razionale Manuale Cencelli, le cariche di governo; poi hanno dato il meglio del peggio nell’attribuirsi quelle di sottogoverno; infine l’ultimo osso da spolpare, le presidenze delle Commissioni parlamentari (con contorni di vice e di segretari delle stesse), oltre alle Bicamerali, quelle “speciali” ed altre che fioriranno nel corso delle legislatura come sempre è avvenuto, sembra sia stato particolarmente conteso in base alla logica che se al Senato una “permanente” viene attribuita al Pd, la stessa alla Camera deve andare ad un Pdl, naturalmente accontentando anche Scelta civica e le minoranze cui spettano per prassi quelle cosiddette “di garanzia”, che poi non garantiscono un bel niente e tutto sono tranne che super partes (la lunga esperienza parlamentare ci ha insegnato molto al riguardo). Resteranno – non lo si dimentichi – le non meno importanti Delegazioni internazionali i cui presidenti beneficiano dello stesso trattamento dei colleghi delle Commissioni permanenti avendo il medesimo rango istituzionale e regolamentare. Anche su questi organismi ci sarà da intrigare perché valgono pure qualcosa.
Restano i peones dopo tanto accaparramento. Per grazia di Dio e volere delle segreterie dei partiti sono di fatto i più felici quando accettano (ma non tutti l’accettano) il ruolo di parlamentare puro e semplice e spesso si distinguono per solerzia, attaccamento al lavoro, intelligenza politica, contributo di idee e proposte nelle stesse Commissioni, oltre che nel lavoro d’Aula dove purtroppo devono sgomitare per potersi esprimere sia pure accontendandosi dei pochi minuti a disposizione. Il Parlamento, infatti, è un “votificio”, non un luogo di discussione. Da anni i tempi sono strettissimi, e non c’è modo di articolare un discorso compiuto, esteso, argomentato su materie difficile. L’intervento è quasi un’endovena. Talvolta neppure quella, ma un’intramuscolare se non una puntura di spillo. Chi parla di riforme dei regolamenti parlamentari non immagina che il Parlamento non è più da tempo neppure il centro di raccolta di quella “clasa descutidora” stigmatizzata da Donoso Cortés nella seconda metà dell’Ottocento. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano.
Torniamo alle beneamate Commissioni. L’ultima trincea (a parte le cariche extraparlamentari, ovviamente, ricche ed ambite) della partitocrazia che se una volta perlomeno si esercitava nell’attriburle in base a criteri che tenevano conto dell’omogeneità della composizione della maggioranza e, dunque, aveva perfino un senso la spartizione, oggi che questa maggioranza è per responso elettorale ed incapacità delle forze politiche necessariamente “strana”, non è difficile cogliere incogruenze che possono addirittura paralizzare i lavori parlamentari. Prendiamo la Commissione Giustizia, tra le più “calde”. Al Senato va al centrodestra, alla Camera al centrosinistra. Immaginate che fine farà un provvedimento dopo aver compiuto il tragitto tra Montecitorio e Palazzo Madama?
Si potrebbe esemplificare a lungo. Per concludere che se la democrazia per definizione è plurale, per buon senso non dovrebbe essere artmeticamente spartitoria. E dovrebbero essere altri le valutazioni in base alle quali assegnare cariche tanto importanti al fine di un corretto svolgimento della dialettica parlamentare. Sarà per un’altra volta, per un’altro regime, per un’altra vita. Forse.